Gli Stones degli anni ’60 non solo quelli degli anni ’70: The Rolling Stones (1966-1968)

Attenzione gli Stones degli anni ’60 non solo quelli degli anni ’70.
Nel 1966 i Rolling Stones sono nella dolce folle culla di quel Sunset Strip Boulevard che a Los Angeles significava tutto. Divertimento, sesso, droga, feste, concerti. Il meraviglioso clima trasgressivo, amichevole ed immediato della California.
Meglio dire che nel 1966 l’immagine dei Rolling Stones è Brian Jones. Il carismatico chitarrista in bilico tra l’hipster e la rockstar, è sempre al posto giusto nel momento giusto, con al seguito una piccola tribù di fedeli adulatori (non solo ragazzine o qualche puttana messicana). Tra i tanti nomi persino un giovane Dennis Hopper, che di li a poco avrebbe partorito ed interpretato Easy Ryder, icona hippy per eccellenza. L.A. era il cuore caldo della musica e del divertimento, l’antitesi di quella New York sofisticata ed intellettuale, covo prediletto di Warhol.

Jagger e Richards, nel frattempo, gettavano le basi per il loro primo grande capolavoro assoluto: Aftermath. Quarto album degli Stones, registrato per intero negli States, che nel 1966 sono pronti a consacrarli definitivamente. Disco di platino e pluri-acclamato dalla critica musicale, pone il gruppo alla pari dei Beatles anche a livello compositivo, grazie a testi intelligenti e graffianti. Anzi, non è assolutamente un azzardo, definire Aftermath un disco “cattivo”.
Mother’s Little Helper apre il lato A della versione UK; Jagger e Richards sono abili nello scrivere un’ ironica e tagliente ballata che mette in risalto alcune “debolezze” delle mamme, ma più in generale marcando quell’ipocrisia medio-borghese di cui i sixties erano intrisi:

«Kids are different today, I hear ev’ry mother say
Mother needs something today to calm her down
And though she’s not really ill, there’s a little yellow pill».

Aftermath -The Rolling StonesLe novità a livello strumentale sono lampanti: Brian Jones accompagna il ritmo tipicamente folk, con il sitar ispirandosi palesemente a ciò che George Harrison aveva proposto in Rubber Soul.
Se la prima frecciata colpisce la mamma, la seconda colpisce le ragazze. Stupid Girl è la classica canzone di marchio Stones: un rithym ‘n’ blues corposo e acido, in cui Jagger recita versi di una verità pazzesca e scomoda; una sorta di frustrazione maschile verso certi celebri comportamenti femminili. Per molti (a torto) una dura presa di posizione maschilista, per altri ovviamente solo una provocazione; un modo per farsi una bella risata. E non si può che sorridere ascoltando: «I’m not talking about the kind of clothes she wears / Look at that stupid girl», oppure « … She’s the sickest thing in this world … » o ancora «… Like a lady in waiting to a virgin queen … ». Ad accompagnare gli Stones anche il piano elettrico di Jack Nitzsche.
La fine degli anni ’60 porta con se anche la sperimentazione di strumenti esotici o orientali, non comunemente usati nella musica rock. In Lady Jane, Brian Jones si appresta a suonare il dulcimer dei monti Appala-chi (una sorta di salterino a pizzico), creando una atmosfera celestiale e quasi tardo medioevale. La batteria è assente, appena qualche accenno del  basso di Wyman e lievi chitarre acustiche.
Under my Thumb, riprende la via intrapresa dalle prime due tracce del lato. Cattivissima e piena di risentimento verso l’universo femminile, tocca apici veramente “spregevoli”. Una canzone del dominio sessuale maschile, ove Jagger non ne risparmia una:

«Under my thumb
A siamese cat of a girl
Under my thumb
Shes the sweetest, hmmm, pet in the world»

In questo caso a rimpinguare l’estrema varietà di strumenti, ci pensa Richards che usa un effetto fuzzbass per conferire un atmosfera esotica al brano, già molto spinta grazie alle marimbas suonate dal solito poliedrico Jones.
A chiudere il lato, la lamentosa Doncha Bother me, e specialmente l’epocale Goin’ Home, una sorta di lunghissima jam session di 11 minuti, con spunti rock e ovviamente blues. Eccellente la parte di Richards.

Il lato A quindi offre le migliori canzoni, e i singoli di successo. Il lato B continua sulla falsa riga di quell’efficace rythim ‘n’ blues condito da qualche tocco esotico e sperimentale. Da citare l’ottima Out of Time (n.1 nelle charts inglesi) con il suo inconfondibile intro e un convincente arrangiamento. Meritano una parolina anche, la convulsa Think e la psichedelica I am waiting.
Doveroso annotare che nella versione USA, compare la nevrotica hit Paint it, Black, uno dei più grandi successi degli Stones. L’oscura rivolta interiore, con la sua carica decadente, si meriterà il posto nei titoli di coda di Full Metal Jacket. Ritmi acuti e ripetitivi (magnifico l’intro) tali da poterli scambiare per sonorità balcaniche ed un testo lucido, cinico cantato con grande enfasi da Jagger: «I see a red door and I want it painted black / No colors anymore I want them to turn black». N.#1 in tutto il mondo che musicalmente conta !!!
I Rolling Stones hanno una lunga discografia e nonostante tutto sono l’ultima grande band ancora in piedi, Aftermath quindi è un grande album per due semplici ragioni: 1) gli Stones del 1966 dominano L.A. ; e 2) perché è l’ultimo disco in cui Brian Jones dice la sua in maniera inequivocabile.
Il fatto poi che questo disco contenga tra le migliori hits di sempre della band è superfluo: sei in cima al mondo e vagando  per le strade di L.A. ti senti un dio, un dio biondo, un dio come Brian Jones.

Their Satanic Majesties Request - The Rolling StonesTheir Satanic Majesties Request (1967) esce sei mesi dopo il monumentale Sgt. Peppers dei Beatles, questo disco rappresenta senza dubbio l’esperimento più bizzarro in casa Stones (e forse il meno riuscito).
Their Satanic Majesties Request è trainato dalla moda psichedelica del momento: canzoni lisergiche, perlopiù senza senso (o meglio con molteplici chiavi di lettura), apparentemente infantili e impregnate di sonorità particolari con il massiccio uso di sitar e strumenti orientali. Persino la copertina è quanto di più deviante si possa immaginare, in bilico tra lo scherzo irriverente e la magia nera.
Se Lennon aveva vestito nel 1967  in maniera perfetta gli abiti hippy, di certo non si si può dire lo stesso per Jagger & Co., gli Stones azzerano completamente la componente blues della loro musica, depotenziando notevolmente il loro impatto sonoro. Una pecca non da poco, Richards non brilla, Jones è oramai sommerso dall’ego della sua immagine losangelina, ed onestamente i buoni tentativi di Wyman e Watts non possono rimediare al pasticcio iniziale.

Sing this all together apre e chiude il lato A. Le sonorità sono notevoli e ricche di spunti, atmosfere caleidoscopiche e coloratissime, ma il brano risulta piatto, anche nel reprise finale. Ci si aspetta da un momento all’altro il riff della svolta blues, ma si attende inutilmente, sbadigliando.
Decisamente meglio è Citadel. Aggressiva nell’intro, con un Richards finalmente a suo agio con un riff inconfodibilmente rock. La canzone suona nel giusto mix tra blues e psichedelia; Jones arricchisce con il mellotron, conferendo un aria magica e spensierata. Compaiono inoltre il piano e il clavicembalo. Esperimento riuscito, stavolta!
In another land è il contributo sinceramente non necessario di Wyman, che firma la canzone. Noiosa nei merletti sonori distorti, il tremolo della voce principale e i cori di Jagger non possono sostituire la carenza di idee di un brano riuscito a metà (trascurando l’assurdo russare che chiude il brano). 2000 Man è una canzoncina senza grosse pretese ma decisamente efficace, per alcuni versi più vicina ai lavori precedenti. Nel chorus gli Stones ritrovano la vena giusta; però amalgamano male le varie parti del brano: c’è da dire che questo è il primo album autoprodotto, quindi alcune scelte appaiono poco ragionate ed troppo istintive.
Il lato B si apre con la miglior canzone dell’album: She’s a Rainbow. Stavolta gli Stones azzeccano tutto,  a partire dal sincero intro “acquoso” suonato dal piano di Nicky Hopkins, assoldato per l’occasione. La contrapposizione tra il motivetto iniziale quasi celestiale e l’aggressiva chitarra di Richards è eccezionale; inoltre nel bridge del brano cori verosimilmente di bimbi o giovani fanciulle spruzzano al brano un’aura quasi satanica. Il testo non è particolarmente impegnativo ma mostra comunque una discreta fantasia e qualche allusione mai casuale:

«Have you seen her dressed in blue
See the sky in front of you
And her face is like a sail
Speck of white so fair and pale
Have you seen the lady fairer»

Riesce bene anche The Lantern, che miscela un corposo blues (grazie all’armonica) e qualche diavoleria acustica e orientaleggiante. Deprecabile il resto: Gomper non convince con la sua scontata danza tribale; 2000 Light Years from Home è una discreta canzone ma non si addice allo stile degli Stones; infine l’esperimento burlesco di On with the show a chiudere l’album.
Their Satanic Majesties Request vendette dapprima bene sia in Europa che negli States, per poi cadere nell’anonimato. Gli Stones sono apprezzabili per tutt’altro genere; un esperimento forse commercialmente obbligato (vedi Sgt. Peppers), ma utile. Dopo il 1967, la coppia Jagger/Richards decide di tornare al vecchio ed affidabile rythim-blues di cui sono assoluti maestri, i risultati pagheranno: i tre dischi successivi saranno pietre miliari.

Nel 1968 Jagger e Richards rimangono impressionati dall’ottimo lavoro in fase di produzione palpabile in alcuni dischi dei The Spencer Davis Group. La regia è di Johnny Miller e verrà arruolato immediatamente alla corte degli Stones. Nel marzo dello stesso anno iniziano a registrare il loro settimo album in studio e il primo banco di prova è 45 giri Jumpin’ Jack Flash che esce a maggio; Il successo del singolo, in testa alle classifiche U.K. conferma che il contributo di Miller è fondamentale.
Beggars Banquet - The Rolling StonesBeggars Banquet  risveglia i Rolling Stones dal torpore e li ripropone sulla cresta dell’onda che cavalcano ancora con estrema spavalderia. Le 10 canzoni del disco sono perfette, compatte, tirate. Nessuna esitazione, nessun dubbio. Tutti in forma smagliante, Brian Jones permettendo, oramai sopraffatto dal proprio stravagante personaggio. Tuttavia anche lui fa il suo dovere, senza strafare, offre un contributo discreto.
La fortuna di Beggars Banquet non deriva solo dal buon lavoro di Miller. Sono almeno 2 i singoli che trainano l’album nell’olimpo dell’antologia discografica. Sympathy for the Devil è certamente il titolo più altisonante del disco. Inizia con le congas e il piano, suonati rispettivamente da Rocky Dijon e Nicky Hopkins, ma è una falsa pista; ben presto si approda ad un rock intelligente e non convenzionale. Jagger, probabilmente, si ispira ai lavori di Mikhail Bulgakov, drammaturgo russo dei primi del ‘900 (fra tutte spicca il romanzo ‘Il Maestro e Margherita’), per tessere delle liriche di rara bellezza e colme di verità. La parodia del diavolo è una trovata geniale: i nuovi ideali giovanili della fine degli anni ’60 che si scontrano inevitabilmente con i dubbi e i timori di quella stessa generazione. Non si risolve mai la contraddizione, ma gli Stones fanno riflettere, e non si nascondono nel trattare questi temi difficili. L’iconografia della cristianità viene sminuita «And I was round when Jesus Christ / Had his moment of doubt and pain»; stessa sorte capita per i temi politici, dalla rivoluzione russa «Killed the czar and his ministers / Anastasia screamed in vain», ai Kennedy «Who killed the Kennedys? / When after all it was you and me»; sino alle autorità «Just as every cop is a criminal / And all the sinners saints as heads is tails». Un brano forte e provocatorio, sorretto tuttavia da un ritmo quasi tribale, coadiuvati dai sinistri cori  di Marianne Faithfull  e di Anita Pallenberg, le “muse” storiche del duo Jagger/Richards. Ovviamente il brano suscitò le più disparate reazioni, dalla minaccia del satanismo fino alla celebrazione dell’anticristo. Insomma, di tutto di più, disattendendo completamente il significato reale del brano.

Oltre a questo capolavoro, gli Stones offrono un bellissimo tributo al bluesman Robert Johnsson, con la ballata acustica vagamente contry di No Expectation. Alla chitarra slide Brian Jones, che regala al brano una pace quasi celeste. Il blues tuttavia torna preponderante in Parachute Woman, uno dei brani più efficaci del disco; con un Richards musicista consumato tra chitarre elettriche e acustiche e un pimpante Jagger all’armonica. Mentre Jigsaw Puzzle miscela lo slide delle chitarre con il piano dal sapore blues. Il risultato è ottimo. Ad un ascolto distratto può apparire vagamente simile allo stile di Bob Dylan, tuttavia è solo fumo negli occhi.

Il lato B apre con un altro singolo monumentale, come Street Fighting Man. Brano dai forti connotati politici e ispirato alle proteste dei movimenti  studenti francesi nel maggio del 1968, «…cause summers here and the time is right for fighting in the street». Un ritmo infernale fatto di chitarre graffianti, un gran pezzo rock ‘n’ roll, nonostante qualche spruzzo melodico di piano e di sitar. Da segnalare anche Stray Cat Blues e Factory Girl. La prima è il solito efficace blues marchiato Richards che verso metà svolta decisamente nell’improvvisazione più frenetica, la seconda invece è una calda ballata country in bilico tra atmosfere decisamente esotiche e quelle più miti di estrazione celtica. Salt of the Earth è il contributo finale con Richards alla voce.
I Rolling Stones chiudono il 1968 con un album forte e coerente. Altri artisti avrebbero inciso album dalle tinte forti, Vietnam, politica, nucleare, diritti civili. Gli Stones solo parzialmente affrontano tali argomenti, ma riescono a cogliere nel segno offrendo nuovi punti di vista rispetto a quelli oramai consueti.
Beggars Banquet è un album da possedere, non ci sono ragioni particolari, ma anche solo ascoltare Sympathy for the Devil può essere sufficiente. A meno che non siate convinti che dietro al rock ci sia il diavolo !!!

Ascolta i Rolling Stones qui

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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