Spiderland – Slint

Ci sono particolari atmosfere che generano un intimismo sincero e spiazzante; quando questo incontra la musica ecco che siamo dinanzi al capolavoro. Spiderland degli Slint è una delle massime espressioni della musica indipendente americana (su etichetta indipendente!) poco prima della rivoluzione mondiale perpetrata dai Nirvana e dal grunge su major. La purezza e l’ingenuità di fondo del progetto arrivano ancora fresche oggi, e nonostante siano passati venticinque anni, l’appellativo post-rock è quanto mai azzeccato.

Lo spoken-word sussurrato di Spiderland rievoca non solo una poesia profonda e di vita, ma anche lucida sofferenza ed determinazione che nasce e muore dall’esperienza vissuta; il tutto spalmato su un letto sonoro carico di grigia tensione che la produzione di Brian Paulson non ne stempera assolutamente mai le tonalità più tetre.
I quattro ragazzotti del Kentycky avevano già dimostrato buone cose nell’esordio Tweez (1989) tanto da attirare le attenzioni della Touch & Go che non si lasciò scappare l’occasione di metterli sotto contratto, e nonostante l’addio turbolento del primo bassista Ethan Buckler (si mormora qualche “divergenza” di vedute con Steve Albini) sostituito da Todd Brashear, il sound della band non ne risente particolarmente.

Spiderland - SlintA guidare in questo viaggio introspettivo tra ricordi e sensazioni ci pensa la voce e la chitarra di Brian McMahan, a tratti calda ed avvolgente ed a tratti secca e petulante quasi punk, mentre sottotraccia le trame della sei corde solista di David Pajo e la sezione ritmica di Britt Walford e Todd Brashear macinano grumi di melodie viscide ed appiccicose. I cambi di tempo puliti ed equilibrati e le virate emotive, che solo l’interpretazione di McMahan sa dare, imprimono a tutte le sei tracce di Spiderland un’aura mistica, con quel retrogusto del commiato, con quella alienazione livida, vissuta, anticipando di qualche anno quelle sensazioni che altre band americane porteranno ad un più ampio successo commerciale, vedi i Built to Spill.
Dai riferimenti letterari (Coleridge, su Good Morning, Captain) a vicende più personali, Spiderland è costruito per essere un diario aperto di ferite mai sopite, di pensieri mangiati da un lato, di laceranti confessioni e di spregiudicate impressioni. L’intro di Breadcrumb Trail è costruito appositamente per il racconto, delicati riff di chitarra che d’intrecciano in barlumi di acuti nel quale il tono confidenziale può proliferare senza indugio. La storia d’amore narrata assume contorni onirici e magici, come è un po’ in tutta la scrittura degli Slint, dosando sapientemente lo spoken-word più cupo a sbraitanti tonalità alte che la voce soffocata di Brian McMahan tocca per pochi istanti adrenalinici. Il pathos musicale sempre ben costruito con la solita formula nineties lento-forte-lento tocca il culmine quando il sogno sembra tramutarsi quasi in realtà:

Creeping up into the sky
Stopping, at the top, and starting down
The girl grabbed my hand, I clutched it tight
I said good-bye to the ground

Il tono del brano trattiene sempre una certa alienazione, che trova nel prosieguo del disco nuova linfa ad ogni brano; non passa di certo inosservata Nosferatu Man ed un’apertura bruciante, che sembra rievocare l’ambientazione cupa e misteriosa del vampiro. Prendendo spunto dal monumentale romanzo di Bram Stoker (Coppola ne girerà un’ottima pellicola nel 1992), gli Slint evocano la solitudine e la disperazione profonda del “non-morto”, trovando il tempo anche di citare Hank Williams e la sua Ramblin man (“I can be settled down and be doing just fine / Until I heard that old train rolling down the line“) in un parallelo extra-temporale con il languido e sommesso destino del bluesman.
I tremanti passi di Don, Aman sono quanto di più tenebroso si possa ascoltare in questo momento del disco; il racconto cut-up sorretto da una nenia di chitarra acustica lenta e quasi scordata, pone la giusta atmosfera delineando un personaggio solo, alienato, perso in pensieri che non ricorda ed in immagini sfocate e forse neanche reali. L’onirismo tocca un’intimità quasi sinistra, in una struttura musicale povera e scarna; e solo nella seconda parte del brano repentine distorsioni puliscono per qualche istante le atmosfere algide, salvo poi ritornare con la stessa insistenza dell’incipit. Washer invece è una caldissima ballata d’amore, nel quale diventa difficile interpretare se sia la morte o la fine di una relazione la fonte di così tanta nostalgica disperazione. Il verso chiave “Wash yourself in your tears and build your church on the strength of your fears” dimostra la visione ampia delle liriche degli Slint che toccano indistintamente l’amore, la morte e la redenzione, come se fossero materiale organico indispensabile per costruire i questi racconti allucinati. Il riff iniziale, e che poi accompagna tutto il brano, è qualcosa di semplicemente celestiale, che dimostra un’abilità innata degli Slint di costruire arrangiamenti semplici, ma molto efficaci; For Dinner è così un capitolo prettamente strumentale, nel quale le parole non sarebbero comunque state necessarie, poiché la tensione viene già elaborata e portata ad estreme conseguenze da una combinazione di accordi e riff acuti e di trame di basso avvolgenti, tenendo sempre i ritmi piuttosto lenti e contemplativi.

Good Morning, Captain è il capolavoro finale, nel quale la solitudine annunciata in Don, Aman qui tocca vertici assoluti, complice una forma poetica che prende come detto spunto da Coleridge. Anche in questo caso il tono è sempre sommesso, il Capitano solo, triste e senza più nulla al mondo, suscita una caritatevole pena nel cantato freddo di McMahan; i cambi di tempo delle melodie aiutano nel prosieguo del racconto lungo, enfatizzando un isolamento che in Spiderland è quantomeno endemico. Nel finale quel “I’m sorry, and I miss you“, è talmente sussurrato da sembrare così timido e dolce, in una disperazione che nemmeno le distorsioni di chitarra possono più contenere.

Spiderland è probabilmente il risultato istintivo (fu registrato in soli quattro giorni) di un sentimento che ruotava attorno alla band, che dopo qualche tempo si sciolse, lasciando un testamento musicale simbolo per tutti gli anni ’90. Dalla cover-art (con le foto di Will Oldham), agli arrangiamenti passando per lo spoken-word, l’eredità questo disco ha lasciato è servita come prima pietra per la costruzione di tutto il post-rock e il math-rock suonato negli anni a venire; gli Slint possono quindi essere definiti degli innovatori nonché dei pionieri a tutto campo, non solo negli Stati Uniti, ma anche in una certa misura in Italia, chiedete anche ai Massimo Volume.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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