Songs about Fucking – Big Black

Prendete un misantropo, occhialuto ed ipercritico nerd di Chicago, mettetegli in mano una chitarra, una passione incontrollata per la batteria elettrica ed una concezione assoluta per l’indipendent (difeso come un vessillo religioso): ecco che avrete il vostro piccolo e cattivissimo Steve Albini; i cui caratteri peculiari si possono riassumere in tre punti virgolettati:

«1. Tratta chiunque con il rispetto che merita (e niente di più)
2. Evita le persone che solleticano la tua vanità e la tua ambizione
3.Opera per quanto è possibile fuori dalla “scena musicale”»

La carriera musicale di Steve Albini viene inaugurata con l’hometape Lungs nella primavera del 1982, un estratto sgraziato che emula l’oscura wave inglese, ma che permette al giovane studente di impratichirsi con la drum-machine, che diventerà parte fondamentale per il sound dei futuri Big Black. Intanto le conoscenze di Albini toccarono una delle band locali più influenti, i Naked Raygun in cui facevano parte Jeff Pezzati e Santiago Durango, che dopo un lungo corteggiamento, convinse a suonare nel progetto Big Black.
L’irruenza sonora e la concezione del rumore di Albini (che arrivò a modificare i plettri con dei piccoli pezzetti metallici ottenendo così quel suono arrembante distinguibile in tutte le sue produzioni!), venivano mitigate dalle melodie di chitarra di Durango che aiutavano a sgrezzare l’impatto pesante della musica della band. L’uso di suoni sintetici (sintomatico sin dagli esordi!) fu portato ad estreme conseguenze, sverniciando la leggerezza classica dei tasti synth verso la potenza esplosiva dei volumi. Con il roboante groove della drum machine unito al dinamismo del basso di Pezzati, ecco che si delinea l’approccio dei Big Black che si collocano in un campo indefinito, ove potenza ed hardcore suonano sinonimi, tralasciando quel fatalismo sociale di cui i Big Black preferivano liberarsene.

La mission di Albini era quella di far incazzare gli alternativi, e nelle righe delle decine di fanzine su cui scriveva, non lesinava critiche sprezzanti verso l’universo indie di cui sì faceva parte, ma dal quale voleva progressivamente distanziarsi provandone la tenacia e la fedeltà agli ideali che l’avevano generata. L’impopolarità dei Big Black divenne direttamente proporzionale alle spregiudicatezze politicamente scorrette di Albini, che non risparmiava le persone di colore, gli omosessuali o i portatori d’handicap, così che Chicago ed il suo bacino di pubblico divenne il grande tabù della band. Tuttavia era difficile, almeno per l’ascoltatore medio, capire quale fosse l’opione di Albini a riguardo; se nei testi esprimeva tutto il razzismo ed il sardonico senso di scorettezza, questo non necessariamente doveva essere il suo autentico punto di vista. Da ottimo comunicatore, il chitarrista non sciolse mai i dubbi, anche se nel retro di Pigpile (uscita live del 1992), si lascia andare ad un beffardo sfottò: «Chiunque pensi che abbiamo varcato il perimetro della decenza verbale, è un povero scemo, e dovrebbe fare un passo in avanti ed infilarmi la lingua nel buco del culo!».

Atomizer (1985) uscito per la newyorkese Homestead di Gerard Cosloy (la stessa che vide Daniel Johnston e i Sebadoh di Lou Barlow), è il concentrato roboante e nervoso che prende in prestito i tic isterici della Gang of Four e la massiccia incisività del basso di Dave Riley che sostuì definitivamente Pezzati, oramai impegnato a tempo pieno con i Naked Raygun. Assunto come piccolo grande diamante grezzo, Atomizer fece la fortuna dei Big Black, specie quando nel gennaio 1987 Lydia Lunch ne elogiò sulle pagine di Forced Exposure, il carattere sessuale e l’energia animale che «… spazzava il palco conducendo guerra con precisione militare violando insistentemente ogni orifizio aperto con la forza di diecimila tori…».
Songs about Fucking - Big BlackUn’enfasi prolungata che trova in Songs about Fucking (Touch & Go, 1987) il canto del cigno e il completamento di quel rumore grosso ed invadente che non avrebbe potuto evolversi in altra forma. Se The Power of Indipendent Trucking urla il carattere selvaggio della musica e ne veicola il messaggio (emblematico «Make you move like an animal /Making a noise like an animal», con la cover di The Model i Big Black devastano il concetto di uomo-macchina kraftwerkiano graffiando le dita su superfici porose e portando le chitarre a nuove definizioni di rumore. Bad Penny anticipa in qualche modo lo sgangherato modus operandi della musica techno dei primi anni ’90: calarsi una pasta non servirà a sconvolgere i sensi, qui bisogna abbandonarsi alle vibrazioni metalliche del basso e alle fangose chitarre di Albini e Durango. Pavement Saw rimescola i rapporti uomo-donna, scavalcano il sesso e le endorfine più graticanti, svuotando così il cliché della seduzione con un mantra dislessico come «She went through me like a pavement saw / And I feel stupid cause I was so stupid about it». Precious Thing e Colombian Necktie sono una doppietta che ruggisce, graffia, irrita per la capacità di condensare sittanta alienazione in due minuti e spiccioli. Da conoscere anche narcolettica e chimica Kitty Empire in grado di insinuare pillole di quell’industrial metallico americano che sarebbe nato di lì a qualche anno, e la conclusiva Tiny, King of the Jews il cui beat meccanico sembra essere uscito dalle più oscure band gotiche inglesi.
I Big Black sono stati pionieri intelligenti, masochisti del rumore, ingegneri della natura umana più perversa: «Mi piace il rumore. Mi piace il rumore grosso, bastardo e vizioso che mi fa girare la testa», Steve Albini ha definito il sound degli anni novanta!

PS: se mi fossi permesso di scrivere recensioni sullo stile di Albini, avremmo ben presto chiuso baracca, sick!

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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