Pure Comedy – Father John Misty

Andrò decisamente controcorrente nel parlare dell’ultimo lavoro di Josh Tillman (alias Father John Misty), almeno rispetto alla disamina di Pitchfork (che comunque assegna un discreto 7.6) o di qualche altra webzine -italiana?- che ultimamente si prende troppo sul serio: personalmente Pure Comedy, uscito l’aprile scorso, lo reputo un gran bel disco, forse a tratti anche migliore del capolavoro universalmente riconosciuto di I Love You, Honeybear (2015).
Pure Comedy - Father John MistyOvvio che parlando dell’ex batterista dei Fleet Foxes e dei propri lavori solisti, una vena di presunzione giace quasi morta sopra un tessuto sonoro scarno e dalle liriche predicatorie, tuttavia accettato questo punto inderogabile, l’ascolto di Pure Comedy e l’ironia sfaccettata che porta in gelosa dote, si fa piacevole ed a tratti persino stucchevole. Rispetto al predecessore, vengono ridotte all’osso le melodie di chitarra a favore degli immancabili archi e di un piano piacevolmente onnipresente, le percussioni riducono il loro peso specifico, lasciando spesso ad un cantato retorico il compito di calcare egoisticamente la scena. Sì, Pure Comedy è un disco molto cantato, fino allo stremo, fino all’insopportabile voglia di sentire solo armonie e sussurri, quasi che oramai saturo di parole, l’ascoltatore annulli qualsiasi significato a quanto udito finora. Forse sta in questa cocente contraddizione, la forza di Father John Misty, che indossa l’abito sfarzosamente elegante per un lavoro lungo, oberato di metafore e parabole ubriache d’ilarità, tant’è che dopo un paio di ascolti, non si sa più quale sia la realtà a cui mirava il cantautore. A tratti prosaico, Father John Misty si innalza a paroliere del mondo e di tutte le cose, distribuendo con svogliatezza la propria bieca visione della vita, per poi chiudersi in un giustificante «I hate to say it, but each other’s all we got»: così la title-track odora di sermone domenicale, senza risparmiare religione, materialismo, politica, esistenzialismo. Affascinante, tuttavia, è il tono melodico ispirato forse al miglior Elton John degli anni settanta, e quell’eleganza dell’accompagnamento al piano, così dinamico eppure strettamente legato all’andatura del cantato. Quest’impressione aumenta in Total Entertainment Forever, nonostante lo stato di grazia di una chitarra acustica imponga un frizzante ermetismo che si dilegua velocemente, nel brano spicca soprattutto una “dedica” a Taylor Swift («Bedding Taylor Swift / Every night inside the Oculus Rift») che forse lascia il tempo che trova. La presenza degli effetti confonde lo sfogo di Father John Misty in Things That Would Have Been Helpful to Know Before the Revolution, nel quale cori, pause sorprendenti e falsetti melodici abbozzano un modo di comporre che in I Love You, Honeybear non era così stucchevolmente marcato. Con tono dimesso e riflessivo (facente parte del personaggio), ecco snocciolate frecciatine forse banali, ma perfette se messe al posto giusto: un verso come «The super-ego shatters with our ideologies» non dice nulla di nuovo, ma lo dice bene in questo contesto!

Vagamente ispirato ad un folk dylaniano -ed in maniera più giocosa ad un tono farsesco boadwaiano- è Ballad of Dying Man, mentre in Birdie assistiamo ad un cupo ed apocalittico ritratto del mondo, rimarcato anche da un intenso ritorno degli archi e da un crepuscolare crescendo che rende davvero l’idea di una resa dei conti biblica. La parte centrale del disco è interamente dedicata a Leaving L.A., ecumenico flusso (ragionato) di coscienza scritto da Father John Misty negli ultimi tre anni; retto solamente dalla voce e da una tonalità che non cambia per tutti i 13 minuti di durata, sono gli archi a correggere il tiro e a conferire un’aria di commiato pianificato: è la prova definitiva per decretare se Pure Comedy vi è piaciuto o meno!
A Bigger Paper Bag si presenta elegante -leggermente datata- ma efficace in quel narcisismo autoreferenziale di cui Josh Tillman si è sempre alimentato: eloquente la mezza confessione «Are you feeling used? I do». Dalle sacre parentesi di When the God of Love Returns There’ll Be Hell to Pay, al liquido svanire di Smoochie: la depressione e le umane debolezze vengono trattate con un distacco forzato, e proprio per questo struggente e memorabile. Se a ridosso del suo epilogo, in questo preciso punto, il disco soffre di un overdose emotiva bisognosa di un cambio di registro, che né con Two Wildly Different Perspectives né con The Memo porta a sterzate decisive, eppure sono due dei pezzi miglior del disco: il primo analizza la politica americana alla luce dell’elezione di Trump a presidente («One side says “Kill ‘em all.”/ The other says “Line those killers up against the wall» è sufficiente), mentre la seconda è il palese trade d’union a quella Bored in the USA che lo portò al successo dopo l’esibizione al David Letterman Show del novembre 2014.

In chiusura So I’m Growing Old on Magic Mountain prende spunto da Thomas Mann e la sua Montagna Magica, per dilungarsi nella riflessione degli anni ruggenti di un uomo sul punto di morte, con tutti i dubbi e le retoriche lecite in questo frangente, mentre In Twenty Years or so, chitarra e piano si compattano per ritornare sulla grande commedia della vita, chiudendo un cerchio i cui estremi non hanno mai faticato tanto a toccarsi.
Pure Comedy è un grande disco contraddittorio, dubbioso nell’umore del suo interprete, costante nei toni e raffinato nella produzione (merito anche di Jonathan Wilson, guru del folk); un lavoro che dapprima si discosta da I Love You, Honeybear, ma che alla fine di un ascolto prolungato la sensazione è che tale distanza non sia poi così grande come pareva con sicurezza all’inizio. Ecco dove sta la grandiosità di questo lavoro: l’insinuare il dubbio e precarietà dei nostri giudizi, come del resto ha fatto Father John Misty col suo ceffo altezzoso per tutto Pure Comedy, rimbalzando da una certezza ad una dilemma.

recensito da Poisonheart

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