Polaris – Polaris

L’arte è una cosa privata. L’artista lo fa per se stesso. L’artista, il poeta, apprezza il veleno della massa che si condensa nel caporeparto di questa industria. E’ felice quando si sente ingiuriato: una prova della sua incoerenza. Abbiamo bisogno di opere forti, dirette e incomprese, una volta per tutte … DADA non significa nulla“: perché mai iniziare un articolo su questo omonimo disco dei Polaris, con un estratto dal manifesto dadaista di Trista Tzara? Risposta semplice, ascoltando l’intento di tale progetto (mutevole come in ogni sessions di registrazione), che pone la musica, il miscuglio di generi e l’improvvisazione più marcata e libera, sopra ogni cosa. Annullando linee guida, polaris coverinfluenze ben definite ed intenti di composizione precisi, si ridefinisce il concetto stesso di produzione di un disco, estraendo dalle lunghe sessions notturne 10 brani abrasivi ed avvolti da un vacuo misticismo sperimentale. Dalle sonorità sax di Gabriel Di Maggio, alla soffice ritmica di batteria di Dario Nistri, passando per le alienanti movenze di basso e synth rispettivamente di Mitch Coda e Andrew Casa Apice, si incrociano deliranti incidenti tra il jazz raffinato di Coltrane ed il prog-rock più estremo, con stupefacenti sfumature che abbracciano tanto la fusion, quanto il krautrock. Con una chitarra -volutamente- non sempre presente (Robert Barrett), le dinamiche di questo disco dei Polaris non seguono una struttura portante rigidamente definita, ma sono le più svariate direzioni di una interminabile jam-session a delineare il percorso di ciascun brano. Più morbide rispetto a qualsiasi carta pescata dal mazzo delle strategie oblique di Brian Eno, l’armonia è preservata con grande cura ed intelligenza, abolendo scontati saliscendi di volume e scomunicando distorsioni o “solismi”, poco ortodossi verso un progetto musicale che non necessita di impalcature prestabilite.

Eppure la rivoluzione non è totale, ciascun brano è distinguibile ed estrapolato dalla lunga coda d’improvvisazione (tutto in presa diretta): così se in Lovers & Giants il soffio jazzistico del sax è tiepido ed interlocutorio, in Cassiopea la ritmica più sostenuta rafforza il delizioso retrogusto prog-rock. Il flusso dei pensieri di ciascun strumento aggiunge alla composizione immediate reminiscenze musicali, che altrimenti si sarebbero disperse per sempre nell’aria, catturate nell’esatto momento della loro comparsa e seguite fintanto che le dinamiche del brano non ne crea di nuove. Un loop d’improvvisazione molto più semplice da spiegare attraverso l’ascolto, come in Dawn to Dusk o nella vellutata Bible Black; eppure accanto a jam più sostanziose, ecco fare capolino fulminanti e fugaci momenti (Dreamscape) ove la chimica lisergica s’instaura immediatamente. Fatale la velvetiana (solo nel titolo?) Run Run Run, mentre in Space Junk assistiamo al momento più penetrante ed emozionante dell’album: un viaggio lo-fi tra fiammate jazz e tuoni seventies. L’epilogo del disco inanella rapidamente e senza troppo ossigeno, la teutonica ImprovAttackk, la fluorescente Lay Down (l’unica “cantata”) e la decadente e minimale Last Message on Earth.

Se il confine tra lo sperimentale ed il “fine a se stesso” è sottile, nella musica dei Polaris non è difficile capire da che parte penda il piatto della bilancia. L’esperienza musicale e l’empatia giocano ruoli fondamentali, per un progetto (magari solo estemporaneo) ma che dona alla musica ventate d’energia nuova, smarcandosi da una rigida (ed ahimé involontariamente naturale!) maniera di comporre che punta sempre sugli stessi elementi (volumi, cambi di tempo, modulazione). Dada significa anche no-sovraincisioni … ma forse Tzara non lo sapeva!

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recensito da Poisonheart

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