Pink Flag – Wire

Punk come movimento proletario? Sicuramente nelle intenzioni, decisamente meno nelle apparenze (se si pensa a posteriori cos’è stato il 1977): forse è per questo che nell’esplosione punk di quel fatidico anno, Pink Flag dei Wire passò perlopiù inosservato, suscitando interesse solo una volta esauritasi l’epidemia londinese. Progetto accademico -vagamente avant-garde- nasce al Watford Art College da Colin Newman, appassionato di musica sperimentale a cui ben presto si affiancano la chitarra di Bruce Gilbert, il basso di Graham Lewis e le roboanti percussioni di Robert Gotobed, ed attirando ben presto le attenzioni della EMI, che non vuole trovarsi svantaggiata nella corsa discografica alle band punk. Tuttavia, l’approccio dei Wire non ricalca fedelmente le peculiarità punk, né tantomeno il look disagiato da working-class; la loro proposta ha in dote una componente artistica e di ricerca, che obiettivamente, il punk classe ’77 non poteva permettersi. Precursori, i Wire delinearono e circoscrissero con grande visione critica i limiti evidenti della musica punk (refuso dei ritmi rock ‘n’ roll della seconda metà degli anni ’50), ispirando musicalmente la successiva generazione post-punk e new-wave, con fiati ed arrangiamenti originali.

Come per i Television ed i Pere Ubu, anche i Wire avevano nell’arte e nella poesia la loro raison d’être, con l’ostinazione di non porre confini alla propria musica e nelle forme d’espressione ad essa derivate. Per i Wire in particolare (come ricorda il critico musicale Simon Reynolds) “grafica” e “metodo” sono due componenti fondamentali: la prima esemplificata in cover art sempre molto iconografiche (curate da Lewis e Gilbert), la seconda messa in pratica da un lavoro in studio maniacale ed ossessivo, preciso nella forma, ma anche aperto a cambi di fronte, con approfondimenti deliziosamente animati da una fervida curiosità. Anche l’approccio sul palco era quantomeno singolare se paragonato a quello di band acclamate come Clash e Pistols: un minimalismo di fondo impersonato da Colin Newman fisso ed immobile dinanzi all’asta del microfono (anticipando in qualche maniera Ian Curtis).
Wire Pink FlagPink Flag uscito all’imbrunire nel 1977 racchiude per inciso tutti i dettami della musica dei Wire: brevità (22 brani condensati su due lati di vinile) ed eliminazione, ossia il processo di “sottrazione” adoperato dalla band in fase di produzione, con l’intento di elidere tutto quello che c’è di superfluo (i primi a saltare sono gli assolo, ad esempio) e concentrarsi unicamente -e con grande cura- su quello che rimane; come ricorda Newman «Tutto il lusso, tutte le divagazioni, scomparsi all’improvviso. Ogni cosa fu drasticamente rivista; le canzoni si ridussero a un minuto e mezzo». Come più tardi i Minutemen, i Wire operavano in una maniera originale, istintiva, ma piuttosto metodica; se la composizione aveva le sue forme brevi ed essenziali, i testi (curati da Graham Lewis) risentivano di esperimenti linguistici fine a se stessi, si pensi che 106 Beats That doveva essere originariamente scritta in sole 100 sillabe (sforando ai fatidici 106 del titolo). Nell’ascoltare il disco non ci sono pause, ogni brano è naturalmente legato all’altro, senza grandissime variazioni di minutaggio o di rilascio di energia. Così Reuters o Ex-Lion Tamer diventano inni senza precisa volontà, secchi e tirati scavano ove nessuno aveva mai osato, evidenziando i limiti (peraltro palesi) del punk e mostrando barlumi di speranza verso nuove forme che potessero sopravvivere al 1977. Meravigliosa Lowdown, accattivante Pink Flag (ovvero come avrebbe potuto essere Johnny B.Goode suonata con un accordo unico, pazzesco!), da citare anche l’androgina Strange (e non solo per la cover dei R.E.M.), passando rapidamente per le movenze di Mannequin o di Feeling Called Love o di Three Girl Rhumba. Eppure è nei brani più fugaci (molti sotto il minuto di durata) che si manifesta il lavoro sottile dei Wire, piccoli capolavori da cogliere con calma e dopo numerosi ascolti, proprio perché è nei dettagli che si cela la passione (e la provocazione) della band.

Il prosieguo della carriera dei Wire li vede in un sodalizio proficuo con il produttore Mike Thorne (ossia quello che è stato Brian Eno per i Talking Heads) per il successivo Chairs Missing (1978), orientato con grande enfasi verso una psichedelia metodica, allungando leggermente il minutaggio dei brani, e portando inesorabilmente la band ad alzare sempre più il tiro verso confini musicali spesso soffusi e mai perfettamente delineati. Il resto della discografia è lodevole, ma non tocca i livelli del capolavoro Pink Flag!

recensito da Poisonheart

  

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