Palle di cannone dalle gradinate: Smells Like Nirvana (1987 – 1992)

Parlare dei Nirvana e di Kurt Cobain è parlare della mia adolescenza. A volte mi riesce fluido e naturale, ma altre volte diventa difficile tirare fuori le parole giuste tra tutto quel torbido caos quello che sta dentro, senza poi cadere nella cieca adulazione. Candele, gigli, chitarre. Come pure arduo è il compito di scindere le vicende personali di Cobain con quelle prettamente musicali (e di critica musicale). Perciò inizio dal primissimo ricordo che ho di quella musica, per me come minimo formativa. Era una mattina d’autunno del 1991, quando ancora ragazzino, vidi in una di quelle emittenti private (perché da noi non c’era ancora Mtv) un videoclip musicale dallo “sfondo arancione”, tanto rumore, ed un ragazzo biondo che urlava. Fu la mia più bella colazione, e seppur il ricordo fosse molto confuso, quel videoclip era certamente Smells Like Teen Spirit.
Il resto è la storia di un ragazzo che ascolta i Nirvana. Un ragazzo come tanti altri.

NirvanaKurt Cobain conosce Chris Novoselic nella sala prove dei Melvins. È il 1986. Cobain alle spalle ha un grezzo demo casalingo registrato con Dale Crover e Greg Hokanson sotto il nome di Fecal Matter. Da mesi oramai non frequenta più il liceo (ove lavorerà saltuariamente come bidello notturno) e vive in una catapecchia da solo sulla East Second di Aberdeen. È quanto più deprimente si possa immaginare per un diciannovenne della provincia americana, un ragazzo estremamente sensibile, alienato ed ancora in cerca di quelle attenzioni famigliari di cui sente la mancanza.
«Punk significa libertà musicale. È dire, fare e suonare ciò che ti pare.
Sul dizionario Webster, ‘nirvana’ significa libertà dal dolore, dalla sofferenza del mondo esterno: è quanto di più vicino alla mia definizione di punk-rock
».
Il punk, l’underground, la musica dei Melvins salva Cobain dal baratro del suicidio adolescenziale, e riconosce in Novoselic (immigrato croato di prima generazione) un valido alleato per formare una band che “faccia della musica come i Melvins”. Per Cobain l’adorazione verso Buzz Osborne è maniacale, ma ben presto trova una sua identità musicale che miscela l’acido underground della musica alternativa con una manciata di giri pop ed un senso di alienazione e frustrazione che dallo stomaco fuoriescono in un urlo lancinante. Il 1987 diventa così un anno fondamentale per i Nirvana (che iniziano a chiamarsi così dal concerto al Vogue di Seattle del 24 aprile ’88): Cobain convive con la prima ragazza fissa (la Tracy Marander a cui sarà dedicata la cristallina ballata About a Girl) ed entra nel circuito della Sub Pop di Bruce Pavitt e Jonathan Poneman, l’etichetta indipendente di Seattle che già in quell’anno annoverava tra le sue fila giovani e promettenti band come Soundgarden, Mudhoney e TAD. Il primo tramite tra l’etichetta e i Nirvana è Jack Endino, produttore e musicista dal fiuto per l’underground più vero ed autentico. E’ colui che si siederà dietro il mixer per la registrazione della prima uscita Sub Pop, il 45giri Love Buzz (cover degli Shocking Blue, quelli di Venus). Alla batteria siede il giovane e simpatico Chad Channing, un ragazzo capellone dalla faccia pulita e dalle espressioni facciali buffe. La rischiosa scelta di prevedere una cover anni ’70 di una band pseudo-hippie può celare dei tranelli, ma le esibizioni live del trio fugano qualsiasi dubbio sulla potenza espressiva e sulle intenzioni dei Nirvana. Il 24 gennaio del 1989 in poco più di trenta ore i Nirvana e Jack Endino registrano l’album Bleach, che vede in veste di quarto membro un certo Jason Everman (colui che metterà i famigerati 606 dollari con cui è stato prodotto), che non suonerà nemmeno una nota e che ben presto andrà a fare il bassista per i Soundgarden (con poca fortuna!).

Bleach - NirvanaDecifrare Bleach è come decifrare la fine degli anni ’80; un disco tirato e grezzo come la mano di Endino vuole, assolutamente sgraziato e lontano anni luce dal rock patinato delle band capellute e machiste in voga nella seconda metà del decennio. C’è tutta la rabbia, l’isteria e la disapprovazione per ciò che l’America regaaniana aveva prodotto in due mandati; tutta la frustrazione e l’umiliazione covata nell’infanzia e nell’adolescenza da Cobain, il tutto simbolicamente racchiuso in quello slogan “Bleach your works” di una nota campagna per la prevenzione dell’Aids che annunciava una mezza apocalisse. Non era la frenesia e la fibrillazione della “summer of love” del ’68; nemmeno la carica distruttiva ed anarchica del punk ’77. Questa era la provincia americana, stato di Washington, Seattle; un porto in decadenza, ove disoccupazione, degrado, noia ed alienazione resero fertile il terreno per lo sbocciare di un underground sperimentale dalle chitarre graffianti strapazzate da giovani ubriaconi dai capelli lunghi, drogati e disadattati.
Il disco contiene tutto il materiale che Cobain e Novoselic avevano suonato in giro per la provincia nell’anno e mezzo precedente. Il suono acido di una chitarra distorta ancora col buon vecchio RAT nero, il basso pernicioso che tesse trame semplici, ed una batteria potente ma non evasiva, e soprattutto quel gioco di volumi e di parti lente e veloci che costituiva la base portante per tutto l’underground apprezzato nei Pixies, Sonic Youth, REM. I testi per Cobain non hanno mai avuto molta importanza, anche se celavano un indecente disagio giovanile, poiché era la musica la prima e più importante cosa. In School è un ronzante riff che regge il brano fino all’implodere “No recess, no recess, no recess” e dopo un assolo gommoso l’amara constatazione di “you’re in high school again” a rimarcare quel suo passato da bidello: un ritorno da sconfitti!. Non diversamente Negative Creep , dal tipico approccio melvinsiano, in cui un unico riff si fonde con la vibrazione del basso seguendone in tutto e per tutto le movenze: una carica autodistruttiva collassa nel ritornello scopiazzato dai Mudhoney “Daddy’s little girl ain’t a girl no more“.
Bleach mantiene una sua linea musicale abbastanza fedele, e fondamentalmente è un album che parla della provincia, dello squallore della vita e della mancate prospettive future, in cui forse Big Cheese (già lato B del esordio in 45giri con Sub Pop) ne racchiude il mesmerico significato. L’unica nota controcorrente è la sopracitata About a Girl, una cristallina ballata pop in stile Beatles, di cui Jack Endino ricorda un curioso aneddoto: «Quando incidemmo About a Girl, Kurt sentì di doversene scusare, si sentiva a disagio, mi disse: “Abbi pazienza con me Jack, c’è questa canzone, è una canzone pop lo sai, spero che ai ragazzi della Sub Pop piaccia, e che non pensino sia troppo commerciale!”». Una contraddizione che Cobain non riuscirà mai a risolvere: l’adorazione per l’underground, per il punk, per quell’indipendenza musicale così unica, ed allo stesso tempo una sensibilità ed una propensione per melodie più pop che così mal si sposavano con l’ideale di musica alternativa. Ma ben presto, con il successo dei REM ad esempio, o con la musica dei Pixies, Cobain si convince che le due cose possono coesistere, e per un breve periodo riuscirà pure a sentirsi a suo agio nello scrivere canzoni di questo genere.
Il vero punto di svolta sarà il successivo tour europeo con TAD e Mudnoney, che vedrà al LameFest UK presso l’Astroria Theater di Londra l’esibizione e la musica dei Nirvana oscurare le performance degli altri e più quotati compagni di viaggio.

«L’essere legati ad una grande casa discografica non ha influenzato la realizzazione del disco. L’unica differenza è stata che questa volta non abbiamo avuto limiti di tempo e abbiamo registrato tutto quel che volevamo, con la massima libertà e senza nessun tipo di interferenza, il che è stato molto gratificante». Nei primi mesi del 1990, i Sonic Youth (divenuti oramai fans sfegatati dei Nirvana) portano Gary Gersh della Geffen Records al Pyramid Club di New York a vedere e mettere sotto contratto i Nirvana. La band suona male in quel 26 aprile, ma la major alla fine si convince lo stesso. Arruolato Butch Vig per la fase di produzione, i Nirvana si apprestano a registrare quello che sarà ritenuto il miglior album degli anni ’90: Nevermind.
Definito come uno dei più grandi inni alla libertà giovanile e composto senza la pretesa di legare a sé messaggi di alcun tipo; Nevermind originariamente non porta in dote nessuna generazione X, nessuna scena di Seattle, nessuna moda grunge. Queste saranno solo spillette aggiunte dalle riviste specializzate, dalle radio nazionali, da Mtv, dalla grassa industria musicale per giustificare come una band semisconosciuta di rock alternativo abbia scalato le classifiche e demolito quella musica fasulla e consumistica da classifica. Eppure Nevermind, venialmente, è un disco dedicato a Tobi Vail, batterista delle Bikini Kill, con cui Cobain ebbe una mezza storia.

Nevermind - NirvanaSmells Like Teen Spirit diventa così l’inno di un’intera generazione consumista cresciuta da Mtv: un successo così esplosivo che ben presto catapulta la band in un vortice commerciale che li vedrà stritolati. Così il successo tanto sperato da Cobain e quell’opportunità di uscire dal provincialismo di Aberdeen o di Tacoma grazie alla propria arte ed alla propria musica, si trasforma in un circolo vizioso troppo pesante per un ragazzo sensibile e caratterialmente vulnerabile. Un giovane che ogni volta veniva dilaniato dentro dalle umiliazioni, un ragazzo che preferiva ritirarsi piuttosto che accettare di perdere qualcuno, un ragazzo che aveva sofferto e che solo con la musica trovava pace.
Eppure tutte le attenzioni dei media si trasformano in qualcosa da cui doversi giustificare, i Nirvana e Cobain in quanto rappresentanti di quel mondo underground, vengono fatti risalire in superficie, aperti, vivisezionati e presentati ad un pubblico che non conosce la musica alternativa, non conosce l’odore dei concerti nei piccoli club, non conosce gli scantinati, le distorsioni. Nascono le definizioni di grunge, di generazione X, le camicie a quadri entrano prepotentemente nei guardaroba. E successivamente quelle corporazioni mediatiche che hanno con troppa facilità fagocitato i Nirvana, rendendoli un bocconcino commerciale, si trasformano nelle maggiori responsabili della loro demolizione mediatica, grazie ad una campagna oppressiva ed invadente prima pubblica (tramite le vicende personali di Cobain) e poi artistica (verso la ricerca ossessiva della prossima grande hit generazionale). La stessa industria musicale che li avevano eletti come portavoce di una generazione, va ben presto alla ricerca ossessiva di altri potenziali (spesso deprecabili) “nuovi Nirvana”, prima ancora che essi stessi potessero godersi l’onore dell’effimero trono.

Il 2 gennaio del 1992, Nevermind sale sul gradino più alto della classifica Billboard: è per la prima volta che un disco di musica rock-alternativo arriva al numero uno delle charts. Un disco che dal fango del Wishkah spodestava il pop di Michael Jackosn dall’olimpo degli dei. La fama trascina il gruppo dall’anonimato più assoluto alle prime pagine di Rolling Stone o di Times Magazine, un successo che scosse tutti i giovani che agli inizi degli anni 90 si affacciavano alla musica. «E’ solo l’ironia sul pensiero di fare una rivoluzione. Ma è un pensiero piacevole». Questo è il semplice significato di Teen Spirit. Un brano composto semplicemente da quattro accordi in barrè suonati per tutto il brano, la cui melodia è scarna e condotta dal basso di Novoselic e dalla batteria di Dave Grohl (entrato nella band, poco dopo il tour europeo del 1989), il cui perno portante è il solito gioco di volumi e di intensità: il cantato sommesso della strofa e l’esplosione rabbiosa del chorus. Uno schema che i Nirvana porteranno ad estreme conseguenze, ma che in realtà era già radicato nell’ambiente underground.
La produzione di Butch Vig non va ad intaccare l’energia e l’istinto punk della band, solo il successivo intervento in fase di missaggio di Andy Wallace lima il roboante caos che la band sprigiona nei concerti giocando con i volumi e “patinando” un suono nato decisamente più grezzo. Ancora una volta il piglio punk deve sovra sedere alle esigenze di produzione, con Vig costretto a convincere ogni volta Cobain della necessità di sovraincidere voce o chitarre: «Non gli piaceva ripetere le cose, ma amava i Beatles così avevo la possibilità di inventarmi una scusa, gli dissi che John Lennon sovraincideva sempre la sua voce perché la odiava. Così ogni volta che dicevo John Lennon, lui rispondeva OK».
Ad ogni modo tutta l’energia naturale dei Nirvana viene mantenuta; da In Bloom col suo intro prepotente di batteria (evidente il contributo hardcore di Grohl) e il suo ritornello fatto per cantare in coro, al secondo singolo, Come as you are nel quale le atmosfere celestiali ed acquose (polychorus docet) comprimono in pochi minuti un ironia paralizzante contro un muro sonoro graffiante ma non invasivo. Altri brani cobainiani per eccellenza sono certamente Lithium e Drain you (quest’ultima la sua preferita) nel quale la sequenza di accordi richiama alle ballate degli anni ’60, con tutto il rumore e la distorsione possibile della fine degli anni ’80: il gioco dei volumi è mantenuto. Stay Away e Breed  invece sono ancora più esplosive dal vivo con quei chorus liberatori e urlati ricolmi di gain e fuzz.
In un album di musica alternativa trovano naturale posto due ballate di matrice acustica come Polly, che allude ad un fatto di cronaca locale riguardante uno stupro (il cui significato viene completamente disatteso dalla stampa “specializzata”) o alla autobiografica Something in the way, (l’attacco “Underneath the bridge …” che  ricorda il presunto periodo in cui Cobain viveva sotto il ponte di Aberdeen). Sono brani dal forte richiamo emotivo che spassionatamente lasciano tracce di un’infanzia nostalgica, un’infanzia spezzata dal divorzio dei genitori.
Nevermind è ricchissimo di questi riferimenti, come del resto tutta la discografia dei Nirvana: la nascita, la fanciullezza e la spensieratezza che poi si aprono verso un difficile approccio alla vita e a tutte quelle contraddizioni sociali, la voglia di affetto, il riparo di una famiglia, il senso di alienazione che resiste verso tutte le amarezze passate, la vergogna e l’umiliazione. Non a caso la copertina di Nevermind ritrae un neonato che nuota nudo nell’acqua limpida, l’esca ed il dollaro sono fuorvianti e decisamente di indole punk ma , e mantengono quella forza ribelle di un underground selvaggio e di una cultura alternativa ben radicata.
Un album completo con così tante potenziali hits messe assieme: «Se fossi stato furbo avrei messo da parte molte canzoni di Nevermind per poi pubblicarle un po’ per volta, nell’arco di 15 anni. Ma non ne sono capace!». Sicuramente questo è uno dei motivi che lo eleggono come capolavoro assoluto e una pietra miliare del rock.
Gli altri cercateveli da soli. Caricando le vostre pistole e portando gli amici! Non serve dire altro …

 

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

 

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