One Day We Drove Out of Town – Black Tail

Il sottosuolo americano ha sempre contraddistinto un certo tipo di ascoltatori e di seguaci, prendete ad esempio la musica dei Pavement, Replacements, Yo la Tengo, Deerhunter o dei mitici Sebadoh di Lou Barlow: un’attitudine vagamente slacker lega questo tipo di musica ed i suoi fans, mai strettamente rock, mai presa troppo sul serio, eppure dannatamente sincera! Ecco, nei Black Tail risiede la stessa onestà d’intenti, lo stesso flusso di coscienza, accompagnato da un tono che sembra apparentemente apatico e disinteressato: eppure anche in One Day We Drove Out of Town (MiaCameretta e Lady Sometimes Records) vi sono tracce di quella sensibilità nostalgica, un po’ Elliott Smith, un po’ lo-fi, un po’ agrodolce con la vita. Dietro ai Black Tail si celano le chitarre di Cristiano Pizzuti e le percussioni di Roberto Bonfanti, per un progetto che nasce nel 2012 a Boston abbracciando incondizionatamente il rock-folk americano, per poi spostarsi definitivamente in Italia, smussando così l’attitudine voice&guitar a favore di una ricerca sonora più calda e passionale. I buoni riscontri dell’esordio Springtime (2015) portano i Black Tail ad allargare i propri confini musicali e ad alzare l’asticella verso un long-playing maturo e curato con tutta la dovizia di particolari; se infatti l’esordio era stato scritto di getto, in One Day We Drove Out of Town ci sono almeno tre mesi di stesura in studio, nel quale le diverse influenze sono collimate in nove tracce spruzzate di una vena malinconica.

One Day We Drove Out of Town - Black TailI riferimenti alla musica indipendente americana sono palesi, ed alcuni già citati, senza tuttavia quella retorica di doversi per forza confrontare con qualcosa di già fatto; nei Black Tails il livello di personalizzazione è facilmente riconoscibile, tra chitarre acute e brillanti ed una sezione ritmica frizzante e di pasta pop. Differenze di cromie, di punti di luce, di contrasti: il disco gioca sia a livello melodico che di composizione sull’equilibrio degli opposti, più che sulle disparità degli stessi, trovando liriche cristalline, sempre ben bilanciate da arrangiamenti lineari, che si concedono a pochi strappi o a cambi repentini di dinamica. Una sorta di post-rock semplificato e dall’anima folk, seppur l’intro spigoloso di Sleepy Volcano faccia presagire ad una rivolta sonica. Spesso, sono le scelte musicali del duo ad appiccare l’etichetta emotiva al singolo brano: un lento senso di dolce claustrofobia accoglie Spider-Galaxy, ballata pop diluita in un oblio irresistibile, grazie ad una poetica lap-steel. Tracce di periferia nella disimpegnata Text Walking Lane, un po’ Vaselines un po’ Built to Spill, mentre la successiva Campfire si mostra ben ritmata e molleggiata, seppur permanga quella vena di lucida disperazione col sorriso in faccia. Curioso notare come il disco sia denso e pieno di suoni, seppur spoglio di effetti di modulazione o vertiginose distorsioni, da qui la grande abilità di creare un groove così ammaliante ed elegante allo stesso tempo: esempio su tutti è Downtown, che mostra quella nostalgia nineties, senza suonare anacronistica.
Arpeggi harrisoniani giungono nell’intro di A Fox, una ballata secca e spoglia di qualsiasi velleità; la seconda parte di One Day We Drove Out of Town sembra più improntata sulla pulizia delle melodie e degli accordi, pur mantenendo quella vena pop slacker, come nella zuccherosa Slippery Slope. Sponda Replacements, nonostante qualche eco finora inedito in Wild Creatures, che dopo un paio di ascolti si conferma come il brano più strutturato e bilanciato di tutto il disco. Le radici folk degli esordi (e qualche reminiscenza beatlesiana, sponda Lennon) tornano a galla in Sycamore che chiude con una patina di languore verso qualcosa di perduto e che non tornerà più, tuttavia con il sorriso di quiete soddisfazione di chi è contento di averlo posseduto per un po’.

One Day We Drove Out of Town è un lavoro molto interessante e magnificamente prodotto, che proietta i Black Tail tra le braccia di quegli ascoltatori gelosi e un po’ taciturni che hanno fatto dello slacker una inconscia ragione di vita.

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recensito da Poisonheart

 

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