Let it Be – The Replacements

Forse non tutti conoscono la scena punk di Minneapolis dei primi anni ’80. E forse più specificatamente, molti non sanno manco dove sia Minneapolis. Lontano dall’altolocata New York e dalla chiassosa Los Angeles, la principale città del Minnesota che si ripara dietro i Grandi Laghi è musicalmente conosciuta per aver dato i natali a Prince, piuttosto che essere la fucina di un underground veloce, grintoso e ricco di contaminazioni rock ‘n’ roll.
Come ogni scena musicale, l’etichetta di riferimento diventa la Twin/Tone che esordisce con la produzione del primo lavoro dei Suicide Commandos (The Commit Suicide Dance Concert) la band di punta del neonato movimento punk di Minneapolis e fonte di ispirazione per la successiva generazione hardcore dei primi anni ’80: Hüsker Dü e The Replacements.
Let it Be - The ReplacementsSe Zen Arcade (1984, leggi recensione) degli Hüsker Dü rimane uno degli album più importanti del decennio (sia per la ricchezza sonora che per l’originalità della proposta), la parabola dei Replacements non può rimanere certo a marcire nel fondo del cassetto. Se l’irruenza e le capacità tecniche dei primi (ricordo che gli Hüsker Dü furono soprannominati “la band più veloce del pianeta”) mantengono alto il vessillo hardcore; Paul Westerberg dei Replacements miscela la sensibilità di un songwriter più intimista e prudente con le linee armoniche più simili alle college-band americane (vedi i coetanei REM di Murmur, leggi recensione) che ai gruppi scavezzacollo della West-Coast.
Let it Be (1984), ultimo lavoro pubblicato per la Twin/Tone prima di passare ad una major, esce pochi mesi dopo Zen Arcade dei vicini di casa Hüsker Dü , ma non per questo ne paga pegno. Due dischi sono talmente diversi come sonorità ed approccio che è impossibile confonderli, tuttavia entrambi svelano quel disagio giovanile che è la fonte della musica alternativa.
Somiglia ad un pop generazionale ben ritmato e contemplativo, così almeno ascoltando i primi minuti di I Will Dare che apre il 33giri. Come i primi Cure, la base ritmica prende il sopravvento, lasciando alle chitarre un sottofondo nostalgico composto da riff ripetitivi e di facile ascolto. Tuttavia il brano si allontana dal pop proponendo una pausa rock ‘n’ roll (quasi di matrice Kinks) con un assolo stonato e svogliato di chitarra, per poi ripartire con verso e coro.
L’album è dinamico nella scaletta, così già nel secondo brano possiamo apprezzare il veloce ma sobrio punk ballabile di Favorite Thing, prende tutto ciò che può dal bubblegum dei Ramones e lo smussa negli angoli più acuti, operazione che tuttavia non viene eseguita in Were comin out che rimane selvaggia e putrida nell’isteria dei due minuti e spiccioli.
Parlando delle capacità compositive di Westerberg, non si può ignorare le liriche che nella sofferta Androgynous toccano l’apice:

Mirror image, see no damage
See no evil at all
Kewpie dolls and urine stalls
Will be laughed at
The way you’re laughed at now

un intimismo puro e cristallino, che anticipa l’ambiguità darkeggiante di Robert Smith, ma il tutto decisamente lo-fi, sporco e sgraziato. Unsatisfied ricalca la stessa maniera quell’arpeggio che nelle college-ballad diventerà un marchio inconfondibile (Peter Buck docet!). L’alienazione è intima e sincera, l’odio è mitigato, ma onnipresente in profondità. Il punk a volte urla da dento. Con Gary’s Got a Bone ritorna un rock ‘n’ roll dalle chitarre graffianti, come solo Minneapolis può permettersi. Un disco ricco di saliscendi, nel quale non sembra esserci un filo conduttore musicale unico, ma piuttosto l’ascoltatore deve trattare ogni canzone separatamente. Solo così si può spiegare una ballata agrodolce come Sixteen Blue incastrata tra canzoni più rabbiose ed elaborate. Answering Machine chiude il disco con un rock-pop ecumenico, che ad oggi suona decisamente datato, ma che trattiene tutto il sapore della prima metà degli anni ’80.

Il successivo Tim (1985) esce per la Sire Records, ed il passaggio con una major non sembra intaccare né la proposta musicale dei Replacements né l’abilità di stesura di Westerberg, tuttavia alla lunga e specie negli arrangiamenti si boccheggia verso un’uniformità da grande pubblico. Con l’eccezione dell’immediata Left of the Dial (brano con innumerevoli reminiscenze al passato “alternativo” come college-band) gli altri spunti devono essere ricercati con acume ed attenzione, e forse ai meno coinvolti nella bellezza dei Replacements questi piccoli particolari sfuggiranno.

Ascolta Lei it Be qui

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass 

 

 

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