Just For a Day – Slowdive

Don’t you know
I’ve left and gone away
You’re knocking on the door i closed today
Mi chiamo Camilla e racconto della musica che riposa nel fondo della mia anima … e la condivido con voi …

E’ una giornata d’autunno, una di quelle in cui la pioggia batte sottile dalla mattina ed il cielo non cambia mai colore, toccando tutte le cromie del grigio più impercettibile. Come una tazza di cioccolato caldo, ecco che Just for a Day, esordio discografico degli Slowdive, è più di un ripiego: qualcosa che scalda di malinconia il cuore e scioglie qualsiasi pensiero dalla mente.
Dopo tre buoni ep che sancirono la nascita della primavera shoegaze, Rachel Goswell e Neil Halstead trovarono la giusta evocazione per confezionare un disco, che viste le premesse degli esordi, doveva alzare l’asticella verso una ricercatezza sonora colta e diluita in dolci effetti di eco e riverbero, costruendo un muro sonoro languido ma sostanzialmente armonioso e rinunciando quasi interamente alle distorsioni che invece costituivano l’ossatura di un altro capolavoro contemporaneo come Loveless dei My Bloody Valentine.
Se il 1991 dall’altra parte dell’oceano rappresentò l’alba del rumore fangoso del grunge, nell’albionica Reading si muoveva il verme solitario di un sibilo altrettanto frastornante e dirompente, ma dalle dinamiche più poetiche ed intense, Just for a Day, uscito a settembre e poche settimane prima di Nevermind dei Nirvana, è certamente la risposta emotiva alla teenage angst anni novanta, la stessa visione alienata ed ingiusta del mondo, ma raccontata dall’altra parte dello specchio.

Non ci sono inni generazionali da urlare con le vene tese del collo, non ci sono frustrazioni da sfogare con il pogo; nella musica degli Slowdive riecheggia una lenta armonia che gioca sui piani diversi delle tre chitarre (oltre alla Goswell e a Halstead, c’è anche Christian Savill), mentre la sezione ritmica getta una cupezza confusa che tuttavia scivola via leggera. All’apertura di Spanish Air ci si chiede dove siano mai queste melodie latine e zingare, poiché il divenire del brano è un lungo eco di chitarre che come archi barocchi calano una nebbia soffice negli orecchi; la voce di Rachel Goswell appare e scompare, talvolta viene assorbita da tale enfasi armonica, sorretta da un coro di richiamo di Halstead che rimarca con decisione il sottile e primordiale senso di estraniamento:

«I long for the sun
The midland air
For all that I have
Is written in waves»

Solo nel finale si riconoscono brevi pennate di chitarre che sembrano richiamare echi ancestrali ricolmi di quella english summer rain laconica e desolante.
Celia’s Dream corrode il lato onirico e malinconico degli anni ottanta, mostrando soluzioni che avevamo già apprezzato a sprazzi nei lavori meglio riusciti dei Cure o dei Cocteau Twins; l’andatura pop è pregevole, altresì le pieghe sonore che come onde nordiche s’infrangono su di una melodia fatta di archi sciolti in un chimico sovrapporsi di due voci, mentre un uragano finale spazza via tutto in sibili acuti come soffi rotti dall’ansia.
Just For a Day - SlowdiveCatch the Breeze è la poesia ambientale e sentimentale che crea una naturale empatia con il paesaggio circostante («Feels like all the days are gone / Just catch the breeze / You know you’ve had your fun / Rain washes waves down»), come se fosse in atto una simbiosi emotiva tra la pioggia cadente e lacrime di cui si bagna il cuore; il lato oscuro dello shoegaze si manifesta ancora una volta in un finale anestetizzato e turbolento di chitarre e modulazioni.
Il passo sinistro e confidente di Ballad of Sister Sue, gioca sui sussurri e gli echi della voce di Rachel Goswell che esplode pacatamente solo nel chorus «…Sister, I’m blinded / It’s only my eyes / I’ve sold them before»; la tensione è così toccante e commuovente da strappare qualche brivido naturale della pelle, mentre la batteria impersonale di Simon Scott batte un tempo freddo come una sentenza cieca di morte.
Gli Slowdive sono abili a giocare con le distanze, dilatando ed accorciando le ritmiche senza mai pestare il piede sull’acceleratore in bruschi strappi tra melodia e ritornello; così anche senza il rincorrersi di voci Erik’s song insiste sulle sensazioni primitive e sui brividi cutanei, confezionando un mini-concept ambient e strumentale di buona fattura, mantenendo il piglio personale e senza scalmanarsi in irrequieti esperimenti. Il lento perdersi nell’oblio trova la conferma in Waves, amara e tragica ballata di desolazione, che nonostante le brezze solari ed acute che ne segnano indelebili i bordi, non viene mai trovata quella pace eterea -nemmeno dopo la lunga nenia finale-; come una spina nel fianco, gli Slowdive rimandano la ricerca della luce a successive arie.
L’altro apice del disco si sfiora per un attimo con la stralunata Brighter e quel suo unico chorus spettrale e liberatorio di «Just leave it all to time»; le dinamiche delle sei corde sono oramai famigliari, così come il lento divenire della sezione ritmica sempre più affogata da livelli e livelli di spleen chitarristico e poetico. The Sadman sembra appartenere ad una dimensione più lontana degli altri brani: crollato il muro di effetti, la melodia si apre a dettagli che prima non si potevano percepire, vertendo tutto su un elastico di ritardi che crea un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni. Chiude il disco la perentoria Primal nel quale la caduta nell’oblio trova la sua dimensione soffice e perfetta, echi che sanno di urla d’addio sfrecciano come saette nell’oceano, mentre la tiepida decadenza è scesa sopra le nostre teste come un sonno dolce ed ammiccante:

«The right time
She calls
Today
Every time she says she’s falling
And every time she call us friends»

Just for a Day è un disco di una sensibilità spiazzante, un tuffo lento (slowdive appunto, da un sogno del bassista Nick Chaplin) verso quella massa indefinita di emozioni e di vuoti pensieri che chiamiamo -con frettolosa noia- dolce oblio. E’ il desiderio di abbandonarsi così per un solo giorno, senza velleità tragiche o treni depressivi pronti a toccare la prossima stazione; è la decadenza poetica recitata nel tardo ottocento, è l’arenarsi di tutte le emozioni in un vacuo sogno da cui non si ha voglia di risvegliarsi, e’ l’ambiguità di una mattinata di pioggia, ove le lumache salgono umide la parete del vetro, così come fanno le malinconie e le piccole pause del cuore …


recensito da Camilla
Camilla heartofglass

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