Il periodo berlinese di Iggy e Bowie

C’è stato un periodo, nel mondo della musica, dove tutto era furore, rabbia, provocazione. Quel periodo venne etichettato come punk. Eppure, paradossalmente, chi l’aveva idealmente (sottolineo!) ispirato, dalla sua forma proto-primordiale fino al look eccessivo, rimaneva segregato in una capitale europea martoriata dal “grande freddo sociale”. Sto parlando di uno dei periodi più romantici, illusori, decadenti ed immersi nel cliché della storia musicale: il periodo berlinese di David Bowie e Iggy Pop.

Due figure agli antipodi nel 1976: David Bowie dopo aver posto fino al suo alter-ego Ziggy Stardust, icona del glam rock vistoso e patinato, si re-inventa nel Sottile Duca Bianco, inanellando una serie di album “plastic-pop” che lo fanno approdare ai vertici delle charts americane e UK. E se Young Americans (1975) contiene in pieno quel funambolico funk-pop articolato e molleggiato (condito da alcune scelte commerciali molto azzeccate, vedasi il duetto in Fame con Lennon), già sul successivo Station to Station (1976) soffia una lieve brezza di cambiamento. Los Angeles è la Mecca dell’eccesso per Bowie, che ben presto lo porta alla follia e alla paranoia più totale: dalle manie esoteriche alla dieta a base di latte (si mormora che addirittura tenesse la propria urina nel frigorifero per scongiurare riti malefici contro la propria persona!!!). In questo clima scellerato debutta sullo schermo cinematografico con L’uomo che cadde sulla Terra firmato Nicholas Roeg nel quale interpreta, ovviamente, la parte dell’alieno dalle sembianze umanoidi, alias Thomas Jerome Newton. Un esperienza che serve a distrarlo un po’ dai ritmi frenetici di L.A. e che insinua nella sua mente la possibilità di lasciare la città californiana. I primi sintomi tuttavia si potevano già apprezzare nel brano omonimo d’apertura di Station to Station, una lunga marcia di cupa contemplazione nel quale il plastic-pop di Bowie viene deframmentato e sostituito da un sound maggiormente evocativo, sia in Stay altrettanto emblematica, a metà strada tra una ballata pop ed un lamento rock morente.

Il tour di Station to Station si rivela un successo incredibile, ma mina ulteriormente la salute psicofisica di Bowie, che nel frattempo ha tolto (nuovamente!) dalla strada e dalla caduta all’infinitesimo più basso, il suo amico Iggy Pop. Se Raw Power era stato un esperimento di rinascita completamente fallito, stavolta Bowie è deciso a far di meglio, assorbendo la delusione per la mancata collaborazione alla colonna sonora di L’uomo che cadde sulla terra, ed incanalandola verso The Idiot (1977). L’album viene registrato quasi completamente nello Chateau d’Herouville in Francia, e coadiuvato dalla presenza di Laurent Thibault, musicista francese con velleità eletto-ambient. Il risultato è un disco “alla Bowie”, in cui Iggy interpreta con timbro da crooner liriche spezzate dalla loro solita energia stoogesiana, dalla funerea Dum Dum Boys alla crepuscolare China Girl. L’esordio solista di Iggy viene accolto tiepidamente da critica e pubblico, che sicuramente pregustavano un disco alla Stooges; tuttavia The Idiot getta le basi per quello che sarà uno dei dischi più rivoluzionari della carriera di Bowie: Low. Contrariamente all’immaginario comune, il disco viene registrato quasi interamente allo Chateau d’Herouville e successivamente completato agli Hansa Studios di Berlino a cui partecipa Brian Eno. É l’inizio della cosidetta trilogia berlinese: Low presenta nel suo lato A un intricato assemble di rock oscuro e sonnolento, dai ritmi sghembi e dalla forza evocativa impressionante, la strumentale e ciclica Speed of Life spiazza per il cambio deciso il trio Bowie-Eno-Visconti imprimono ad un disco visionario e veggente. Breaking Glass e Sound and Vision sono pezzi minimali ed essenziali, crudi nella loro struttura armonica e dalle liriche sghembe e frammentarie: lasciando in bocca quel disagio suburbano velato di decadenza, come suggeriva Berlino in quegli anni. Il lato B viene completamente sottoposto alla cura Eno e alle sue “strategie oblique” che colorano di imprevidibilità i capolavori di Warszawa e Art Decade, assistendo ad un evoluzione che si muove controcorrente rispetto alla febbrile energia del nascente, e ad un certo punto scontato, punk. Negli anni ottanta i gruppi che hanno maggiormente sperimentato, sono stati influenzati direttamente da quest’album.
Il 1977 è un anno di febbrile lavoro: fa capolino un altra uscita di Iggy Pop, stavolta con il ben più granitico e personale Lust for Life, di cui Bowie dedica ancora energie, ma rispetto a The Idiot siamo più affini alle sonorità degli ultimi lividi Stooges. Grande merito va alle sezione ritmica di Bowie con Ricky Gardiner, suo il riff della sconvolgente The Passenger, e i fratelli Sales a percussioni e basso (successivamente con Bowie nell’esperimento Tin Machine). Iggy partecipa molto più attivamente alle sessions ed il suo contributo è presto riconoscibile in Tonight e in Sixteen, mentre grande fortuna postuma spetterà a Lust for Life, resuscitata per la pellicola culto anni ’90 Trainspotting. Tuttavia il rapporto tra Iggy e Bowie si raffredda e mentre il primo va in tour a promuovere il disco, l’ex Duca Bianco ritorna agli Hansa Studio e produce “Heroes”. Il disco mantiene fede alla nuova rotta intrapresa dal Bowie, stavolta con Eno a curare maggiormente le sezioni ritmiche e con Tony Visconti a sfruttare tutte le potenzialità che gli Hansa Studios potevano offrire. La title-track brilla di un energia malata, nostalgica ma che stupisce per la perfezione stilistica con cui viene modellata, il singolo tuttavia non trova molto spazio nelle classifiche dominate da Pistols o Clash. “Heroes” è per davvero un disco su e per Berlino, vedasi la tumultuosa The Beauty and the Beast, o la dedica ai Kraftwerk in V-2 Schneider; nel lato B il consueto catalogo strumentale con la minimale Sense of Doubt e con Neuköln, ispirata alla comunità turca di stanza a Berlino. Solo ora Bowie decide di portare la carovana in tour, e di raccogliere i frutti di un anno intensissimo: critica e pubblico rimangono sorpresi e stupefatti dal “nuovo” stile di Bowie, che per non sembrare troppo ostico, rispolvera anche le vecchie hits degli esordi … complessivamente un successo!
Per il terzo ed ultimo capitolo (quasi obbligato!), bisogna tuttavia attendere quasi 20 mesi, e di certo Lodger non rispecchia minimamente l’energia dei primi due episodi. Innanzitutto l’album viene registrato i momenti diversi tra i Mountain Studios di Montreux in Svizzera e il Record Plant di N.Y., e anche se gran parte del materiale deriva da sessions berlinesi, è certamente dei tre, il disco con meno legami verso la capitale tedesca. Poco ispirato, si presenta come un collage di spezzoni diversi e sregolati, salvati solamente dalla narcolettica Boys Keep Swinging: probabilmente qualche screzio tra Bowie ed Eno in fase di arrangiamento conferisce quest’aura incerta al disco. Simbolicamente Red Money, che chiude il disco, ripropone lo stesso motivo portante di Sister Midnight, la canzone con cui apriva The Idiot, a segnare la fine di un epoca e l’ennesima trasformazione e rinascita per David Bowie ed Iggy Pop … gli anni ottanta sono un altro affare: «My mother said to get things done: “you’d better not mess with Major Tom»

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

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