Hi, How Are You: The Unfinished Album – Daniel Johnston

Naïf, dadaista o semplicemente fuori di testa: Daniel Johnston è stato il diamante perennemente grezzo dell’America indipendente dei primissimi anni ottanta. Registrazioni casalinghe, il mito della cassetta e del mangianastri, la quintessenza primigenia del lo-fi (di cui Daniel Johnston è stato inventore!), surrealismo musicale, innocenza e banalità mescolate in un approccio allo strumento (qualsiasi strumento!) da perfetto neofita: tutto questo è stato il bagaglio artistico di un giovanotto che distribuiva cassettine giusto per farle sentire a qualche passante.
Lo spirito independent e hype deve tantissimo a questo disturbato mentale ed alla sua musica semplice, puerile, a tratti sinistra, eppure così pop e così viva e così cruda da renderne perfino difficile l’ascolto. Qualsiasi disco di Daniel Johnston dal 1981 ad oggi, ha in seno un’avanguardia oltre ogni confine d’immaginazione, canzoni e progetti limitrofi alla spirale barrettiana di The Madcap Laughs, che tuttavia mantengono una vena di attualità e di conscia venialità.
Dagli albori di Songs of Pain (1981), attraversando tutti gli anni ottanta, perdendosi nella seconda metà del decennio successivo e diventando più “esigente” con l’inizio del nuovo millennio, Gus ha scelto Hi, How Are You (1983) se non altro per la t-shirt osteggiata con tanto candore da Kurt Cobain e che ha indirettamente aumentato l’interesse per Daniel Johnston.

Hi how are you - Daniel JohnstonLe influenze che balzano maggiormente all’orecchio abbracciano il primo blues del Delta e tracce sparse del folk degli anni venti (ma senza la spinta sociale o socialista), eppure è perlomeno patologico l’approccio bambinesco alla musica, tra filastrocche recitate con un filo di voce (Poor you), a mantra appena ritmati da un organetto poco professionale, attraversando i pensieri istintivi di un uomo profondamente turbato nella psiche, che si muove come un bimbo smarrito con un piede in un mondo ordinario, che lo vede come un adulto qualsiasi, e con l’altro nello splendente universo musicale nel quale viene idolatrato come un feticcio rivoluzionario. La sensibilità di Daniel Johnston è spiazzante, umile e dannatamente vera, poiché capace di mischiare il materialismo terreno con l’assolutismo religioso, il tutto condito da una idealizzazione dei sentimenti (e dell’amore) che ha qualcosa di cavalleresco e melenso.
Così la dolcissima Walking The Cow cavalca un’onda emotiva lunga  (evidente il senso di disorientamento in versi come I really don’t know how I came here / I really don’t know why I’m stayin’ here) nel brano forse più convincente ed ascoltabile del disco, ove dinamiche d’organo pulsano una melodia di vagamente pop, vagamente beatlesiana. Tensione minimale con il contagocce in Despair Came Knocking, mente in Desperate Man Blues sembra di riascoltare i tenebrosi fantasmi di Robert Johnson, in Hey Joe ci sono tutti gli ingredienti per una bella ballata pop voce e chitarra, tuttavia l’approccio ostinatamente lo-fi produce un bozzetto costantemente grezzo.
Registrazioni di programmi tv, pubblicità, voci sparse, melodie fischiettate consentono alcuni collage artistici davvero spiazzanti, il più convincente ed ironico sembra essere Keep Punching Joe, mentre in sottofondo un disco jazz confonde ulteriormente tutte le nostre ben salde idee musicali.

Dopo un periodo con la Homestead, Daniel Johnston viene avvicinato dalla Shimmy Disc di Mark Kramer che tenta il salto nel mainstream con 1990, senza pur tuttavia limare troppo le abitudini lo-fi dell’artista. Con la contemporanea esplosione della bomba grunge, le cassette di Daniel Johnston trovano nuovi curiosi ascoltatori, ed il tuffo radiofonico arriva con la Atlantic con cui registra Fun (1994), il lavoro sinceramente più ascoltabile di tutta la discografia dell’artista (contiene Silly Love, piccola pietra miliare). Tuttavia la sua instabilità mentale è tale da non reggere una carriera professionale, così Daniel Johnston ritorna al suo mondo, senza rimpianti di fama e gloria.
Approcciare a questo artista, portato in palmo di mano dai cultori dell’independent, non è per nulla semplice e forse nemmeno così musicalmente gratificante, con il rischio di rimanere ciecamente delusi al primo ascolto; anni luce lontano dall’istrionismo di Calvin Johnson e dei Beat Happening o dalla purezza dei Sebadoh di Lou Barlow, in Daniel Johnston vive e prolifera una visione del mondo alterata ed innaturale, ma proprio per questo spiazzante e ricca di spunti sensibili ed alienanti. Se da piccoli avete mai canticchiato su di un mangianastri con un microfono davanti alla bocca, credetemi, forse è meglio rispolverare quelle vecchie registrazioni … potrebbe celarsi un piccolo Daniel Johnston dentro di voi …

recensito da Gus
Gus heartofglass

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