I Have a Call – Girless

Girless per queste pagine non è di certo una novità: ricordiamo ancora con piacere l’abrasivo Same Names for Different Girls (era il 2011, leggi recensione) sotto Girless & The Orpham. Stavolta Tommaso fa tutto da solo e confeziona un concept acustico che lega tra di loro, in otto ballate tipicamente do-it-yourself, altrettanti suicidi artistici (o presunti tali), altresì indagando sul disagio e sulla spinta centrifuga che ha permesso loro di vivere in maniera così speciale e controcorrente.
Una cover-art azzeccata delinea gli otto protagonisti di un disco ruvido e dolce allo stesso tempo, capace di irradiare quel soffio di malinconia che ha da sempre accompagnato le opere ed il vissuto di questi maestri. I Have a Call è un lungo ragionamento sulle meccaniche della vita, sulla passionalità di emozioni non corrisposte, sulla frustrazione di non essere davvero compresi nonostante il successo popolare e l’ovazione critica: “una campana di vetro” citando Sylvia Plath (tra le eroine di questo disco), che isola l’artista dal contatto umano e dalla realtà, in una sorta di mistica alienazione che vive e prolifera tra ragionamenti lasciati a metà ed emozioni non vissute.

I have a call GirlessAddentrandoci senza altre premesse in I Have a Call, si nota con sollievo che l’approccio folk di Girless non è cambiato (l’aura di Woody Guthrie veglia sopra una nuvola); sonorità acustiche e scarne sono rette da un cantato appassionato e sincero, che assorbe tutta la raffinata energia emanata. In Ernest è un semplice arpeggio a sostenere un brano spudoratamente sincero, nel quale il  vecchio fantasma di Hemingway si muove spaesato alla ricerca di quel posto dove stare e che in vita non ha mai trovato: il tutto riassunto in un chorus ululato di profondo splendore  «So now will I ever get home?». La perentorietà mostrata in Mario, in qualche modo colora di tinte forti la figura libera e sempre fuori dal coro di Monicelli («I don’t need a palliative care for my disease / Cause I’ve never lived my life like a slave»), delineando in pochi versi una personalità che non ha mai accettato il compromesso ed il bavaglio alle proprie idee: morire per le proprie (testarde) convinzioni è un qualcosa che non sempre è facile da comprendere e/o accettare. Più delicata è la ballata dedicata a Primo Levi, nel quale il cantato in coro (con Urali, aka Ivan Tonelli) soffia su ricordi troppo pesanti da impedire la prosecuzione di un presente scolorito ed apatico: Primo è un brano riflessivo e molto pungente in quel suo dolce oblio di chitarra. Il passato prosegue per la propria tangente anche in Virginia, la cui morte violenta della Woolf (annegata nel fiume Ouse con le tasche piene di sassi) viene poeticamente riassunta in «My body won’t float no more».

L’imbucato tematico è Giuseppe Pinelli, la cui morte è tuttora avvolta nel mistero in quell’Italia degli anni ’60 martoriata dal terrorismo interno; così in Giuseppe si immaginano gli ultimi istanti di vita dell’anarchico, con una spensieratezza acida che non fa presagire ad alcun finale drammatica, e sul cui sfondo inneggiano le preghiere per una giustizia terrena sempre in costante ritardo sui tempi.
Vladimir è lo struggente ritratto di un poeta di “partito”, che ad un certo punto non credette più nella Rivoluzione: la disillusione di Majakovskij è livida in una crepuscolare ballata intrisa di quella stessa malinconia, di chi ha visto i propri ideali sciogliersi al sole del potere e della cupidigia. Parallelo è il ritratto che Girless fornisce in Luigi, con una ritmica più accesa si disegna una delusione che non ha a che fare con la politica ed il pensiero, ma che coinvolge l’amore e la passione per la musica: su questo Tenco ancora oggi ci emoziona e ci spiazza, in una maniera che i propri contemporanei non riuscirono a cogliere, poiché «Life’s too short to sing again».
Il basso di Urali e le percussioni di Andrea Muccioli fanno capolino nell’ultima traccia di questo disco, che si estranea dalle precedenti per una maggior rotondità di suoni e di armonie: Sylvia è un ruggito disperato che non può essere udito, avvolto in quella “campana di vetro” che tutto annichilisce e che tutto allontana. La fine tragica della giovane Sylvia Plath, viene ricordata da Girless con la solita bravura di ricorrere ad immagini pulite ma di grande impatto: «Let’s put our heads into the oven with a sense of grief», lasciando l’ascoltatore ancora una volta senza fiato.

I Have a Call (per To Lose la Track / Stop Records) è un disco emozionante e sincero, che omaggia otto figure importanti del secolo scorso, per raccontare quelle che sono ancora ad oggi le paure, le azioni e le idee, di un presente che fatica a guardare in avanti, perché ha ancora troppo da imparare dal passato. Un lavoro lucido e spontaneo, dannatamente indipendente che da almeno sette/otto anni Girless è abituato a suonare e cantare, a suo modo, senza quell’invidia per chi è salito alla ribalta, ma che forse non ha combattuto abbastanza per la propria filosofia di musica.

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Girless soundcloud
To Lose la Track sito ufficiale
Stop Records sito ufficiale

recensito da Poisonheart

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