Grace – Jeff Buckley

Jeff Buckley, che dire! Beh, uno dei talenti più importanti degli anni novanta e proprio per questo stroncato sul più bello. Nella musica alla fine tutto si ripete e non si compensa: la generazione artistica degli anni novanta che fu spazzata via nel giro di qualche anno ricorda grossomodo (e passatemi il paragone fintanto che la mia aspirina non fa effetto!) le caotiche vite interrotte dei migliori interpreti della musica degli anni settanta.
Jeff Buckley è stato forse migliore di suo padre Tim, non me ne vogliano i nostalgici hippies; la musica di Buckley padre era permeata da una nostalgia talmente amara da rischiare (colpevolmente!) vanificare ogni considerazione positiva, occorre quindi nell’ascolto separare le due componenti, e non tutti ne sono capaci!

Il figlio prodigio iniziò a muovere i primi passi al Sin-é, uno sconosciuto caffè irlandese in pieno East Village a N.Y. Era il ’92 o al massimo il ’93, quando intratteneva il pubblico con performance talmente passionali e viscerali da manifestare emozioni sincere (per non dire singhiozzi!) da parte di chi ascoltava. Uno scambio artistico-mistico con il pubblico che cementò il Buckley musicista. Non ebbi mai occasione di vederlo dal vivo, ma conservo alcune fotografie che una mia cara reporter scattò durante quei concerti, ed ogni volta che le guardo, penso: “Questo il talento ce l’ha incollato addosso!”.

Il debutto con Grace (1994) fu accolto da una sorridente e compiacente critica. Secondo me, gli esperti constatarono che il figlio d’arte aveva delle buone carte da giocarsi (un caso raro!), e seppur l’esordio sia di ottimo livello, personalmente credo che il vero Jeff Buckley si possa esprimere in modi ancora più maestosi. Un disco invaso da una vena malinconica (vezzo di famiglia?!) ma spezzata anche dalla carica calda della sua musica. Ballate complesse, lontane galassie intere dal pop commerciale di quel periodo, affinità incredibili con il soul più raffinato e sofferto.
Se i Buckley’s fossero stati neri non avremmo avuto nulla da eccepire.

Grace - Jeff BuckleyL’ampiezza vocale è indiscutibile, ma quello che mi sorprende ad ogni ascolto è l’interpretazione passionale, affogata in un pathos concreto. Un impegno carnale in ogni singola traccia: la senti nella voce, la senti nelle chitarre o nel piano; se tutto questo riesce ad emergere da un lavoro in studio, figuriamoci quali brividi dal vivo! Brividi che mi percuotono la schiena mentre ascolto la traccia 2: Grace. Un brano non allineato al resto del disco, nel quale la componente più ruvida delle chitarre si scontra con un armonia melodica, calda e profonda, il tutto senza inni troppo sopra le righe. Il giovane Buckley sa tenere i giusti toni sommessi, per una ballata bella, perfino commuovente, da sindrome di Stendhal. Il disco si apre con il soul contemplativo di Mojo Pin, che sa trovare i giusti ritmi pop senza mai e poi mai sputtanarsi. Last Goodbye è una variante vivace di blues cantato con la passione di un rocker solitario, mentre Lilac Wine sa molto di papà Tim.
So Real mette in primo piano un estensione vocale da far tremare anche Mercury, mentre a livello sonoro si assiste ad un avvicinamento al quel sound sporco della metà degli anni novanta, nulla di troppo tuttavia, come si evince anche da Eternal Life.
Bastano i primi 40 secondi di Hallelujah per sverniciare la poesia di Cohen, tutore a vita del brano: è il singolo meglio conosciuto del disco ma non il migliore a mio avviso. La rivisitazione è di qualità indiscutibile come del resto la performance del giovanotto; impressionante come Jeff sa modellare i tempi ed i ritmi, salendo pian piano di tono in un brano lento e difficile da plasmare oltre il rigido calco originale.
Radiofonico Lover, you should’ve come over, troppo pretenzioso l’austero Corpus Christi Carol. Chiusura crepuscolare con Dream Brother, che giustifica pienamente le lodi fin qui ben distribuite.

Bando ai convenevoli e ai freddi giochi del destino, questo è un album sopra la media, ma ripeto (e al diavolo i commenti negativi!) mostra solo un centesimo del talento di Jeff Buckley. Un ottimo provino …

recensito da Gus
Gus heartofglass

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2 Risposte a “Grace – Jeff Buckley”

  1. Ma hai mai ascoltato Tim?? No davvero hai una minima conoscenza in fatto di musica o no? Giusto per iniziare di hippie Buckley padre non ha proprio nulla tanto che dopo i primi due album sforna Happy Sad che riesce a fondere free-jazz, musica di avanguardia e tanto altro, e Lorca che è un album alla Nico di Desertshore. Poi Tim usava tecniche straordinarie sia di canto sia di arrangiamento per scolpire atmosfere quasi cosmiche, mentre Jeff, seppur ottimo cantante, resta all’interno del formato canzone classico. Infine, per chiudere dato che voi ignoranti che osannate gente a caso senza nemmeno sapere di cosa parlate praticamente(mai ascoltato Lorca?) ti faccio notare che e sue conquiste in campo vocale sono degne della musica d’avanguardia e certamente del jazz. Il suo canto era davvero un altro strumento, piu` simile alla tromba e al sassofono del jazz che al baritono della musica pop. Come ebbe a dire il suo collaboratore Lee Underwood, Buckley fu per il canto cio` che Hendrix fu per la chitarra.
    Le acrobazie del virtuoso erano soltanto una parte della storia. Gli esperimenti sul canto servivano a Buckley per comporre una narrazione altamente psicologica, fatta di allucinazioni e voli, dialoghi e silenzi, confessioni e deliri. Il suo gioco intricatissimo di gemiti, urla, guaiti, vocali estatiche, sussurri nevrotici, sussulti isterici, quel modo di quasi piangere cantando costituivano un vocabolario e una grammatica di grande effetto.

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