Funeral – Arcade Fire

Se dico Canada, voi preziosi lettori, pensate musicalmente parlando al massimo ai Nickelback. Eppure c’è un nome, forse meno conosciuto ai più, ma di diverso spessore, chiamasi Arcade Fire, band dagli accenti malinconici capitanata dai coniugi Win Butler e Règine Chassagne e composta, curiosamente da altri svariati musicisti. Caratteristica insolita, che li rende perlomeno speciali; non avrebbe nemmeno senso elencarvi tutti gli strumenti e i nomi di coloro che li suonano, vi basti pensare che agglomerano in sè una cospicua sezione archi, senza disdegnare i fiati e persino strumenti da strada come la fisarmonica. Sotto questi auspici, s’insinua sotto pelle il debutto per nulla banale di Funeral (2004). E se il titolo significa qualcosa, non aspettatevi la solita banalità dal rock facile e dall’aspetto piacente.

TrascinatFuneral - Arcade Firei dal successo da una ballata agrodolce come Rebellion (Lies), incentrata sul potere delle bugie e delle convenzioni sociali, ma anche un j’accuse al perentorio conservatorismo USA dopo l’11 settembre. Paradossalmente è un brano che si mimetizza ed estrania dall’ intero stile del lp; i ritmi sono da malinconica lullaby in crisi d’astinenza. Piena di lividi, sofferta, forse un tantino romantica, sorretta da un semplice giro di chitarra acustica e da un martellante battito di tamburi che simula forse quello cardiaco. Il disco è percorso come da un brivido tiepido dietro la schiena, una rassegnazione vigile, nostalgica, ma dalle parole di fuoco. Neighborhood funge da piano dell’opera, se non altro per le sue 4 parti disseminate lungo il disco. Dal sapore androgino alla Smiths è (Tunnel) confuso ritratto della memoria dei tempi dell’infanzia, in un parallelo di generazioni molto interessanti; cyber-zingaresca è (Laika) nel quale si allude ad un fantomatico Alexander, personaggio tuttavia dalla fine tragica segnata; nella terza parte (Power-Out) la band approda ad una dimensione rock-minimalista, sorretta da ottimi riff e da soluzioni stilistiche certamente innovative; infine (Kettles) un commiato alla vita e alle decisioni a cui essa porta, un po’ alla maniera di NeilYoung.

Gli Arcade Fire almeno in questo esordio mostrano una musica melodica dagli accenti fortemente emozionali e musicalmente ineccepibili; stilisticamente un gruppo di ventenni vestiti grunge, disillusi come lo erano i loro eroi. Wake up è forse più di un monito alla sua generazione, dal cuore duro e dalle parole secche come sberle in faccia, ma in fondo Butler non dice cazzate: «But now that I’m older, my heart’s colder, and I can see that it’s a lie». Più leggero nei ritmi è  Haiti, omaggio alle origini della Chassagne, mentre Crown of Love è un lento rock cadenzato che non avrebbe sfigurato negli anni ’50. Cito infine In the Back Seat brano da carillon, delicato in bilico tra Björk e un cabaret-rock dai ritmi rallentati, degna chiusura di un disco mai troppo allegro, ombroso a tratti, ma onesto e di spessore.

Post Scriptum: gli Arcade Fire sono quelli che hanno folgorato Bowie lungo la via di Damasco …  interessante!

recensito da Gus
Gus heartofglass

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.