Emoterapia – Trivo

Fa perlomeno pensare. L’etica DIY, del “fattelo da solo”, non solo ha superato con distacco le paranoie ’77 e post-punk, ma addirittura, si può dire, che abbia ballato sui cadaveri dei martiri punk e garage. Imprescindibile la filosofia che sta dietro a questo funambolico quanto claustrofobico lavoro di Trivo (Rocco Triventi), ragazzotto foggiano guarda caso di classe ’77, ma che il punk ha da spartire pochissimo. Emoterapia è un disco originale, che non ha nulla a che fare con le mode indie-teenagers del momento, anzi rappresenta con un concept viscerale dal lato sicuramente oscuro, reso gradevole da contorni sonori spigliati e disinvolti. Parlare di sperimentazione sarebbe solo un azzardo, nonostante Trivo si diletti ad esplorare con buona volontà tutti gli organi vitali della musica: dalla poetica sofisticata ed ambigua, a suoni ricercati strappati per i capelli ed affogati in un caos lo-fi.

Come un collage spezzettato oppure un puzzle decapitato, l’artista esplora le proprie e le nostre paure, mantenendo un atteggiamento imparziale ma allo stesso tempo cosciente di ciò che va dicendo. La difficoltà (e probabilmente il timore) di relazionarsi con l’esterno è uno dei temi cari, una sorta di maschera da pantomima a protezione della propria essenza e della personale natura: la gente lo fa di continuo senza mai ammetterlo, e Trivo ce lo descrive bene con voce ansimante in Nero. Un album mosso e pensato come un discorso interiore al servizio di tutti, Ratio me fugit coglie l’irrazionalità che si cela dietro la “malattia” di vivere, un flusso realmente vissuto e decantato con onestà senza nessuna certa dose di inettitudine. Il tutto shekkerato in un fulgido mix di elettro-rock colorato di effetti e feedback sgraziati ed improvvisati; una sorta di must nella produzione autodidatta di questi brani, dal soffio sul collo di Tu non sei normale, all’anfetaminico-artificiale Veronica ha un virus.  Intramezzi e vibrazioni estemporanee, endorfine lenitive dai ritmi apparentemente casuali, ma che a volte rendono l’idea di ciò che non si riesce ad esprimere a parole. Ne consegue una forte carica d’alienazione che disperatamente cerca ed invidia una normalità esteriore solo paventata, ma è tutto un equivoco: l’uomo è malato tra i malati.

Ho bisogno di qualcosa che non ho bisogno è l’inequivocabile messaggio in una bottiglia di scotch abbandonata sulla carcassa di una storia d’amore, nel quale la retorica dello stare insieme viene doppiata dalla preponderanza dell’individualità. Tuttavia è giusto chiarire che non c’è alcuna traccia di nichilismo nietzschiano o di qualunquismo metropolitano nelle liriche e nell’esposizione dei brani: c’è invece molta speranza, celata da un ineguagliabile nebbia. Trivo non è un cantastorie impostore che culla le emozioni a proprio vantaggio, piuttosto è un esploratore che ha conosciuto l’altra faccia dell’oscurità e che ha deciso di raccontarla e metterla in musica. Ci vuole tatto, sensibilità e una certa apertura mentale per comprendere la chimica di questo rock-wave dalla faccia impasticcata di dub-funk; e per chi parla la stessa lingua di Trivo non sarà difficile immedesimarsi, per esempio, nella splendida lullaby che chiude il disco, l’onirica Kisstarsky. Il sangue è il lubrificante della nostra anima, e non mente: Emoterapia è una cura … non dimenticatelo!

 Trivo myspace
Trivo Last fm

recensito da Poisonheart
 

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