A Due – Beatrice Antolini

Beatrice Antolini avrebbe dovuto essere la Annie Clark dell’independent italiano, perlomeno per la qualità compositiva dei suoi primi lavori, per una certa vena eclettica e per quel sottosuolo punk sempre presente nelle sue produzioni. Se il debutto casalingo quasi introvabile di Big Saloon (2006) sembrava già un’avanguardia interessante, con il più maturo A Due (2008, da leggersi in inglese) la svolta era davvero a portata di mano. Eppure la mancanza di palato del pubblico italico ed una stravaganza circense molto sopra le righe di A Due, non hanno permesso il definitivo salto di qualità, anche se il disco di per sé rimane una delle sparute note liete della musica indipendente nostrana.
Classe 1982, Beatrice Antolini vanta una discreta poliedricità (a scapito della giovane età) ed una ricerca strumentale che si basa molto più sull’istinto che sul ricamato di illustri e geniali predecessori. La sua musica è suadente e giocosa, un vaudeville coloratissimo ove la concezione favolistica della vita prende forma e sostanza senza cadere in stereotipi art-rock o dark-wave. L’onirismo attento di Beatrice Antolini si priva della scomoda effettistica dilatata (echi e delay), preferendo che siano le mille cromie ed idiosincrasie del pianoforte a raccontare una musica diversa.
Beatrice Antolini A DueL’ascolto di A Due non è né semplice e né immediato, poiché così ricco di richiami e di piccole follie da destrutturare lo schema stesso della forma-canzone, privando l’ascoltatore del pathos di un chorus limpido o di aperture di armoniche di chitarra. Un cabaret-rock sognante ed arrangiato tanto con delicatezza, quanto con l’irruenza punk che sostiene l’idea stessa della musica di Beatrice Antolini; passionalità profusa ed una fiabesca atmosfera vagamente retrò marcano le undici tracce di questo disco, partendo proprio da New Manner, canzone-manifesto dell’Antolini-pensiero. Il “nuovo manierismo” è costruito sull’eclettico talento libero della cantautrice, delineando forme di comunicazione nuove: tra sospiri ansimanti e fraseggi sostenuti da un’isteria generalizzata, che nell’armonia sincopata del pianoforte trova la sua raison d’etre.
Funky Show è il rigurgito bubblegum-punk più immediato che possa esistere, tarantolato e posseduto da un’energia penetrante ed imprevedibile che deve essere sfogata d’impeto; come accadrà periodicamente (seppur con meno enfasi) in altri brani di questo disco, come ad esempio nel weimariano Pop Goes to Saint Peter o nell’imprendibile ed accattivante motivetto di  Sugarise. Eppure lungo l’ascolto è doveroso ripulirsi di qualsiasi preconcetto, abbandonandosi con fiducia lungo questo viaggio delirante e rassicurante allo stesso tempo, come se fossimo a bordo del battello di colorato Wonka sponda Gene Wilder. Morbidalga è un soffice sogno di pan di zucchero dilatato nella notte, mentre le contaminazioni esotiche di A New Room for a Quiet Life sono disturbate da rutilanti intramezzi parlati ed rintocchi acuti di pianoforte, dimostrazione lampante del campionario musicale di Beatrice Antolini.Da segnalare episodi meno vivaci e più introspettivi, come la bella andatura di Clear my eyes, nel quale le forme pop vengono trattare con garbo, per una ballata triste ma molto autorevole; o come il minimalismo solfeggiato di Secrete Cassette
La suite di Taiga chiude con quel debito di insana follia come necessario congedo; nei suoi sette minuti tenebrosi, Beatrice Antolini colloca con attenzione ogni particolare scarno -arpeggi ridotti all’osso, pianoforte incatenato e statico, ritmica tribale e selvaggia- verso una inconcludente nenia che avrebbe trovato plausi nella artistoide New York della no-wave.

Ad ogni modo, il percorso artistico di Beatrice Antolini trova l’ostinazione della scena italiana, poco incline a cambiare timbro e slacciarsi dalle solite ballatine folk-rock di una generazione elitaria; così nonostante un buon passaparola via web ed un’intensa attività live, non portano quell’attenzione delle riviste specializzate, tanto naïf quanto poco coraggiose quando c’è da scommettere per davvero su qualche artista fuori dagli schemi.
Il successivo BioY (2010) affina il processo di maturazioni artistica e vocale di Beatrice Antolini, perdendo irrimediabilmente qualcosa in termini di imprevedibilità, mentre con Vivid (2013) il compromesso ad un mainstream di nicchia assume i contorni di un mezzo fiasco.
La sentenza dice che A Due dovrebbe entrare di diritto tra i migliori dischi italiani del decennio scorso.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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