Any Other City – Life Without Buildings

Life Without Buildings è stata una delle migliori band (e Sue Tompkins una delle più ispirate interpreti della sua generazione) del decennio scorso, eppure lasciano in eredità un solo monumentale disco, Any Other City, riscoperto da alcuni giovani musicisti particolarmente ispirati (anche nostrani!).

Nati a Glasgow sul finire del 2000, il quartetto composto, oltre che dalla già citata Sue Tompkins (voce), da Robert Johnston (chitarra) Chris Evans (basso) e Will Bradley (percussioni) trovano in Andy Miller (successivamente con i Mogwai) il produttore adatto per dare sfogo al concitato spoken-words della loro cantante. Ispirati idealmente dal math-rock degli americani Don Caballero, i Life Without Buildings suonano uno sghembo indie ruvido nella forma, ma abbastanza ammaliante nella sostanza. Sono le interpretazioni intrise di vaneggiamenti della Tompkins a dare corpo ad progetto che musicalmente risente anche delle influenze, più o meno recenti, della grande città scozzese (i già citati Mogwai, ma anche un certo agrodolce verso i Vaselines di Eugene Kelly). Se l’apparato musicale mostra segni di solidità, questo non può bastare in un panorama musicale ove l’eccesso di personalità viene cercato con spasmodica impazienza sia dagli ascoltatori che dai critici. Ecco che Sue Tompkins, nata come pittrice, si presta perfettamente per dare anima al progetto Life Without Buildings. È il dinamismo che impone nel suo cantato, in pericoloso bilico tra l’isterico ed il fanciullesco (come un rigurgito punk fatto da un natante), che rende meravigliosi i brani contenuti in Any Other City.
Life without Buildings - Any Other CityE’ un lo-fi nelle intenzioni (non certo nella struttura melodica, anzi molto ricercata), sputato come un’imprecazione, eppure così fasullo al primo ascolto. La grande contraddizione non viene mai risolta, e fa la forza di questo album. Il “right stuff” ripetuto con voce acutissima fino all’esaurimento in PS Exclusive, passa quasi in secondo grazie ad un ritmo altrettanto sostenuto da parte di chitarra e batteria, rendendolo un piccolo inno da canticchiare durante la giornata. Allo stesso modo “flash flash it, sounds like a leem” rieccheggia nella celestiale Envoys, commuovente come il sorriso di un bimbo: è la vocina della Tompkins che colora di tinte florescenti un brano piuttosto riflessivo nelle velocità e nei cambi di tempo. Così ben presto ci si accorge che lo schema dei brani assume il medesimo volto, slang rapidi ripetuti velocemente ed all’impazzata, come se il cantato fosse semplicemente un’altro strumento a disposizione dei Life Without Buildings. Velleità punkeggianti, poiché anche il punk viveva di slogan, che cadono su un letto dinamico che spazia dall’improvvisazione più istintiva al percorso mentale più introspettivo. Se come detto, la voce con la sua passionalità malata diventa l’acuto che marca le dinamiche del trio batteria-chitarra-basso, questo passa dapprima inosservato all’ascolto, poiché l’orecchio medio si concentra su quello che sa tradurre meglio, ossia il cantato; ecco che l’aprire i confini dell’art-rock si tramuta nel boomerang perfetto per i Life Without Buildings che perdendo Sue Tompkins perdono anche la loro caratteristica peculiare. Più a suo agio tra le composizioni pittoriche (con un gusto in bilico tra il materico ed un certo surrealismo intellettuale), Sue Tompkins compie una discreta carriera nell’arte, esibendo le proprie creazioni anche al Modern Institute di Glasgow.

Cosa ci rimane dei Life Without Buildings? Un meraviglio debut-album composto da brani istintivi come pennellate pollockiane, ma solido nella struttura musicale: Let’s get out potrebbe essere benissimo un inno da vita di strada, mentre The Leanover o Young Offenders diventano piccoli capolavori di spoken-word, isterici, aritmici, deliranti ma allo stesso tempo delicati e sensuali. L’ossessiva ripetizione di alcuni versi o parole assume le vesti di una lullaby per metà ubriaca, per metà dolcissima. Sorrow mostra un diverso approccio, più meditato e quasi poetico blueseggiante nella confessione di un amore quasi clandestino suggellato dalle parole sussurate “we’ve met before, don’t be disappointed / keep, don’t keep me / it’s the new past”; mentre New Town si trastulla nel cercare delle risposte attraverso gli occhi di qualcun’altro, mentre la chitarra rallenta (anch’essa con quella mossa ripetitiva) e segue i lunghi sospiri della Tompkins. Juno diventa più pop e meno istintiva, grazie ad una sezione ritmica che intrappola il brano in uno schema meno sperimentale ed istintivo ma ugualmente efficiace.
Any Other City è un documento fantasioso ed intriso di cristallino talento, che avrebbe meritato sicuramente un successore, purtroppo Sue Tompkins ha deciso diversamente, facendomi singhiozzare su ciò che poteva essere ancora la musica indipendente con degli interpreti di questo calibro.

 

recensito da RamonaRamone
M_Ramona Ramone

 

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