Andate Tutti Affanculo – The Zen Circus

Che sia stato l’album della svolta, sia per la carriera della band che per il “cantautorato” indipendente, non c’è alcun dubbio, che porti in dote una sana dose di verità corrosiva anche, come che tra le righe si celi un nascosto anticonformismo per puro spirito di contraddizione. L’Andate Tutti Affanculo degli Zen Circus (per tutto l’articolo ometterò il fastidioso “The”) comunica con irriverenza e chiarezza la situazione di “questi primi cazzo di anni zero” suonando per davvero della musica (e non strimpellando qua e la dei pensieri) e cercando anche di finire in rima le 10 filastrocche di cui si compone l’album.

Per i puristi ed i fans della prima ora, questo disco potrebbe rappresentare uno scempio, una virata all’independent radical-chic che piace tanto agli intellettuali più progressisti, o a tutta quella gente che paradossalmente viene bersagliata nel sesto disco di Appino & Co. La svolta stilistica c’è stata, è innegabile, dal punk ruvido e tagliente cantato in inglese degli esordi, passando per la strana collaborazione con Brian Ritchie dei Violent Femmes in Villa Inferno (2008), eppure nei contenuti gli Zen Circus sono rimasti pressoché fedeli alle proprie origini “diversamente” proletarie. Ovvio, lo zampino de La Tempesta Dischi (e di Davide Toffolo), e la scelta di cantare in italiano hanno definitivamente portato a tagliare i ponti con un passato forse troppo naif, tuttavia l’approccio di Andrea Appino alla scrittura ha permesso di evidenziare quelle sfumature verso un’Italiaccia sporca e zingara, che con la lingua inglese non avrebbe reso uguale.
Andate tutti affanculo - Zen CircusL’eco definitivo di Andate Tutti Affanculo, passa anche per l’iniziativa de Il paese è reale, che raccoglie grazie a Manuel Agnelli la crema della scena indipendente ed intellettualmente impegnata, consegnando così un lucido estratto di quello che verrà, pigramente, denominato dalla stampa musicale come indie-italiano (e di cui tutti portiamo ancora le cicatrici!). Le parole di Appino, le percussioni di Karim Qqru, ed il basso petulante di Massimiliano Schiavelli (Ufo) giocano con un rock-folk allegorico, tralasciando per qualche istante le virate più rumorose e strutturate che li avevano sempre contraddistinti; ottenendo come risultato finale un disco ipercritico, che sbraita dal primo all’ultimo secondo, a tratti un poco ruffiano, ma che si ostina ad penetrare oltre la retorica e la superficie patinata delle cose, manifestando sincero disgusto. I mali ideali che attanagliano la gente e soprattutto il qualunquismo di massa sono i bersagli nei versi allegorici di un Appino in splendida forma, che con una, allora inedita, andatura da cantore di corte demolisce icone, dicerie, comportamenti, prese di posizione e dogmi dell’Italia più vuota che sia mai esistita.

L’apertura grottesca de L’egoista presenta subito la prima rivoluzione perpetrata dai Zen Circus: distorsioni assenti, feedback scomparsi, ed una cantilena ripetitiva (con tanto di cori enfatici) che ammonisce e mette all’indice questo e quello. Senza mai che sia venuto in mente, che l’ironia è leggera come l’aria e che aleggia sopra le inconsapevoli teste di tutti, con mille velleità da sfatare, da annotare o da ignorare. Così, il protagonista è un essere senza pietà che non lesina lacrime per nessuno (nemmeno per il padre morente) e che non ostenta alcun sentimento verso il prossimo; illuminante è il passo «Del resto se sei ancora vivo / Lo devi quasi tutto alla gente che odi e che…» e per un attimo ecco che proprio quel qualunquismo spiccio, tanto criticato dai Zen Circus, è per assurdo una delle componenti che hanno portato al successo questo disco. La parlata-cantata impastata di Appino corre cieca lungo le strimpellate rapide da chitarra da spiaggia (deturpata? forse no!) di Vecchi senza esperienza, consegnando alla morte una ballata acida da festa del PD, che nel finale propone «Fondiamo la repubblica dei giovani italiani / Vecchi senza esperienza, altolocati, dei villani». Ma lo si capisce quasi da subito che i Zen Circus sono fatti di un’altra pasta, un’altra generazione (Andrea Appino classe 1978) che ha vissuto per intero gli anni ’80 e non solo un pezzetto, e che ha visto con occhi d’adolescente attento le rivoluzioni (musicali e culturali) dei primi anni ’90. E’ la capacità di afferrare le problematiche e di raccontarle fino in fondo, utilizzando solo pochi versi o poche parole per esplicare quel senso di vuoto che attanaglia i puri di cuore, gli impavidi e i dannati, che fanno della giustizia sociale un cruccio ed un sogno che fa male solo a pensarlo.

In It’s Paradise è l’arguzia di un bambino a svelare l’ipocrisia degli adulti, mentre in I just wanna live l’andatura si fa quasi ecumenica, con un uso scientifico dei cori di rimando ad ogni verso, come a rimarcare la volontà di generare delle ballate ad alto coefficiente d’orecchiabilità. E se questo duo di brani sembra essere il trade d’union (perlomeno per il refuso inglese) tra i vecchi ed in nuovi Zen Circus, la parte centrale del disco chiarisce definitivamente che la svolta è totale e senza ripensamenti. Vuoti a perdere, a discapito del rock velatamente sporco, ospita la voce di Nada che si fa ruvida quanto basta, per dare spessore ad uno dei primi brani nella scena indipendente che mette si interroga su uno dei più grandi mali di questa società: la violenza sulle donne.
Il giro iniziale di chitarra ed il basso felino di Andate tutti Affanculo trovano l’equilibrio perfetto per un inno generazionale (e molto più che reazionario), che ha la sua quintessenza del cantautorato anni ’70 a cui questo disco idealmente s’ispira. Ironia mezza nuda e mezza svelata sin dall’inizio:

«Al cinismo più bieco e posato
Tipo quello da cantautorato
Esser stronzi è dono di pochi
Farlo apposta è roba da idioti»

su di un tessuto armonico ripetitivo ove la retorica si contorce su se stessa in un’eterna e riluttante risata.

Il vago blues di Amico Mio mostra segni di stanchezza, perlomeno nella struttura compositiva (e poi quei soliti cori di sottofondo) e nel tono sempre troppo controcorrente e ipercritico, che sottopelle svela, specie in questo brano, la sordida non-volontà di crescere, rimuginando su di un passato libero (quello del protagonista e del suo amico) fatto di ricordi da contrapporre al  presente inquadrato e sconfitto dell’amico stesso, oramai trasfigurato nell’età adulta e “responsabile”. In Ragazza Eroina la storia si ripete, e non basta il contributo di Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, a rinfrancare un brano che avrebbe potuto diventare un mezzo inno; mentre Gente di Merda il tono agnostico ed irriverente penetra facile come una lama nel cuore. I Zen Circus ribadiscono una rabbia distaccata verso la massa non-pensante anche grazie ad una cover-art che schernisce l’ideale de Il Palazzo della Civiltà Italiana, con tutte le reminiscenze storiche del caso. Chiudo con Canzone di Natale, ove Appino ripropone un binomio (eroina vs natale che funziona sempre) tanto caro alla cultura beat (vedasi William Burroughs), ottenendo così un ottimo riscontro quasi virale con il verso «Fa che nonna mi abbia regalato i contanti e non il solito paio di guanti».

Se, come molti altri, anche gli Zen Circus si sono allineati all’esigenza discografica dello scrivere e cantare in italiano per trovare così un posto al sole, è innegabile che Andate Tutti Affanculo sia uno dei dischi meglio riusciti di questa strana tendenza. Ruffiano ed ipercritico, Andrea Appino tocca i punti sensibili che sanno scaldare le generazioni più giovani che ancora si nutrono di spicci ideali; tuttavia tanta critica non è sempre supportata da alcuna proposta o soluzione alternativa, con il rischio di far scemare tanta rabbia in una mera e sciocca lamentela di un ragazzone toscano classe ’78.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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