We Die Young: il Grunge secondo gli Alice in Chains (1990-1996)

Gli Alice in Chains nascono nel 1987 dalla chitarra di Jerry Cantrell e dalla voce di Layne Staley; tra i gruppi cosiddetti della “scena di Seattle” sono i più atipici, in quanto la componente punk-rock nel risultato finale è praticamente assente, preferendo la fedeltà all’hard rock targato anni ’80. Sommariamente la loro epopea si alternò tra alti e bassi (equamente divisi direi!) tra il 1989 e il 2002, anche se dal 1995 non si registrano più uscite inedite; hanno cavalcato come altri l’onda grunge e come fu per quasi tutti ne furono travolti (Staley morirà nel 2002 per overdose).

Facelift - Alice in ChainsL’esordio è comunque di pregevole fattura. Facelift esce nel 1990, quindi prima della rivoluzione “Teen Spirit” ad opera di Cobain. In questo lavoro la componente hard è molto esplicita, al contempo, bilanciata da ottime liriche che alleggeriscono il sound e la percezione che l’ascoltatore sostiene. I suoni sono sempre ruvidi e mantengono una postura piuttosto precisa dettata dalla chitarra di Cantrell, e se vogliamo fare un paragone siamo nell’altro emisfero rispetto all’isterica lidibo dei Mudhoney. Gli Alice in Chains ascoltati nel tempo (ed estrapolati dalla moda grunge) acquistano valore e passione, sicuramente una valida alternativa al panorama forse troppo monocolore delle camicie di flanella, e a dirla con tutta onestà ottennero meno di quanto meritassero.
L’apertura chiarisce tutti i dubbi, We die young, due minuti e spiccioli aggressivi, tirati, precisi senza strafare; i testi sono sempre molto espliciti e quasi mai banali, almeno in questo lavoro.  Molto effetto wah in Man in the box, che suona più completa della precedente, a tratti ricorda le dinamiche più pompose e mainstream di Aerosmith e soci. Seguono altre buone prove come Sea of Sorrow o It ain’t like that che percorrono la via dell’hard acido, senza particolari tecnicismi di Cantrell, che però traccia già le linee melodiche di quello che sarà il groove Alice in Chains (da ascoltare i successivi lavori acustici, per rendersene conto). Il brano più grunge del lotto è I can’t remember, non a caso il tempo è come da consuetudine il doppio più lento delle estetiche metal: l’atmosfera è quella tipica del underground “educato” da una major (non a caso gli Alice in Chains esordirono proprio con la Columbia Recors). Pomposa al punto giusto è Bleed the Freak, sicuramente la migliore dell’album.
Facelift vendette circa mezzo milione di copie, visto e considerato che siamo nel periodo pre-Nevermind è un risultato di punta specie per un esordio in long-playing. Tranne in qualche rara eccezione il sound nei lavori successivi sarà questo o si discosterà di poco, quindi tanto meglio godersi cosa fu in principio.

sap-alice-in-chainsQuello che non ti aspetti dopo un esordio del genere è un ep acustico. Sap è la grande sfida di Jerry Cantrell e nell’ascoltare i primissimi secondi di questo disco, che anticipa di pochi mesi l’uscita di Dirt, si rimane fuorviati. Nonostante si dica che il titolo nasca da un sogno del batterista Sean Kinney, Sap non nasconde la sua anima triste e sommesa. Brother è la prima traccia e nel suo intro arpeggiato crea belle sensazioni. Ovviamente nel crescendo, anche la voce di Staley si fa dapprima delicata (per quanto possibile!) per poi approdare nel chorus, ad un sostegno da parte di Cantrell. Presenze sporadiche di chitarra elettrica nei brevi spazi dedicati all’assolo. Batteria quasi impercettibile, stessa sorte per il basso di Mike Starr; effetti assenti: Sap sembra svuotato come dopo una crisi d’astinenza da eroina. E fondamentalmente è questo lief motiv del disco. Got me wrong avvolgente e ben interpretata da Cantrell, regala ottimi riff elettrici che smorzano la tensione acustica; apparirà come singolo nel 1995, durante la re-incisione di Sap; dettata probabilmente da motivi contrattuali dato che Staley oramai schiavo della droga non era assolutamente in grado di sostenere la realizzazione di un nuovo disco, e il verso «I haven’t felt like this in so long wrong, in a sense too far gone from love » anticipa le tematiche esplicite di Dirt.
Right Turn e Am I Inside si concedono molto ad un “incidente” tra folk e rock in salsa grunge. Se la prima ospita Alice Mudgarden (non ci vuole tanto a capire che stiamo parlando di Mark Arm dei Mudhoney e di Chris Cornell dei Soundgarden); nella seconda il risultato è tratti cupo e a tratti crepuscolare.
Non citata nell’ep, è Love Song, scritta dal batterista Kinney; uno swing schizoide, con echi spettrali, pernacchie e un andatura da marcia funebre, con concessioni hardcore di qualche secondo. Un esperimento decisamente azzardato. Sicuramente non necessario, ma gli Alice in Chains sono fatti così.
Sap è quindi apprezzabile soprattutto per la doppia valenza dei musicisti, capaci di far “rumore” e hard-rock di qualità e concedersi a sprazzi acustici molto penetranti e quasi mai banali. La bellezza di questo disco tuttavia cela un disagio emotivo che porterà Layne Staley progressivamente sempre più in là…

Dirt - Alice in ChainsNel 1992 avere una band di musica alternativa nella top 10 delle U.S. charts è paradossalmente un fatto consolidato. Quindi non si sottrae da questa sorte Dirt, uscito a settembre, e che qualitativamente non offre nessuna vera grande novità rispetto a Facelift.
Il sound è probabilmente più accessibile per esigenze di mercato (l’effetto major è evidente!), all’orecchio stride molto rispetto agli esordi e si ha come l’impressione che il disco sia stato “aggiustato” in fase di mixaggio per diventare potenzialmente un successo commerciale. Definire Dirt un concept album è come minimo un azzardo, piuttosto il tema dominante è la tossicodipendenza di Staley che ne caratterizzerà gli anni successivi e di conseguenza anche il rendimento della band. Il disco soffre di questo vizio per tutta la sua durata, tuttavia la profondità e l’emotività malata di fondo non lascia indifferenti e brani come Them Bones, e soprattutto Would? colgono perfettamente quelle sensazioni. Quest’ultima mette in chiara luce il dramma dell’eroina ma è anche una dedica ad Andrew Wood, compianto vocalist dei Mother Love Bone. Il basso di Star apre nervoso per poi lasciare spazio al deciso riff di base di Cantrell (autore del testo), la voce di Staley è dapprima bassa e pesante, per poi aprirsi in un lamento nel chorus. Straziante all’ascolto.
Oltre alla droga si nomina anche depressione, morte e guerra del Vietnam; l’album a volte cade nella noia ma sa anche rialzarsi quando i volumi lo necessitano. Brani di punta, più per il successo ottenuto che per lo spessore espressivo, sono Angry Chair, Rooster (dedicata al padre di Cantrell ed alla guerra) e Sickman.
Discorso apparte merita Down in a Hole che offusca il tipico hard rock del disco per concentrarsi in una ballata che rasenta l’acustico e le atmosfere del precendente Sap; Staley confeziona un ottima performance, sofferta ed emozionante, seconda solo a Would?
A mio critico parere Dirt suona come un album mezzo compiuto. Alcune idee musicali sono buone ma sono messe alla rinfusa, in un disco che da l’impressione avesse voglia di uscire nei negozi il più presto possibile per sfruttare l’onda grunge. Obbiettivo sicuramente raggiunto, ma i drammi personali trattati in questo livido lp non verranno mai risolti dagli Alice in Chains.

Jar of Flies - ALice in ChainsNel gennaio 1994 nulla è ancora perduto. Il grunge vive e si mantiene grazie alle trovate pubblicitarie di riviste e televisioni; ignari che di li a qualche mese tutto finirà in un colpo di pistola. Gli Alice in Chains registrano in pochissimo tempo un altro ep, Jar of Flies e come era accaduto per Sap, le chitarre si fanno nuovamente acustiche ed i ritmi più pacati. Concentrare sonorità acustiche e liriche più melodiche, intende anche dimostrare la salute della band, alle prese con le precarie condizioni di salute di Staley. Metabolizzato l’addio del bassista Starr (sostituito con quello di Ozzy Osbourne, ossia Mike Inez) la band ha un inaspettato colpo d’ala, riuscendo a registrare questo mini con molto impegno e alcune ottime idee. Rotten Apple è paradossalmente la più vigorosa del disco, nonostante amalgami gocce di chitarra elettrica (Cantrell abusa dell’effetto talk-box) con assoli delicati e ricercati supportati dalla base melodica prettamente acustica. Ispiratissimi dunque gli Alice in Chains che non perdono il vizio di deprimersi, come in Nutshell, creando un atmosfera povera con solo la consistente batteria ad accompagnare la chitarra talora acustica e talora amplificata. È la migliore dimostrazione della maturazione di questa band, troppo spesso beffeggiata. Ben arrangiata, non scivola mai via nella retorica. Irrompono gli archi nella maestosa I Stay Away, sofferta e tagliente, sospesa tra il classico sound dei Chains e  qualche esperimento melodico nel chorus, che danno il valore aggiunto al brano. No Excuses opta per sonorità più commerciali, con la provocazione del tamburello che si ode al posto della batteria, mentre Don’t Follow ricorda gli R.E.M.
Whale and Wasp è la conferma della natura strumentale di Cantrell, che a tratti omaggia i classici del hard rock, con concessioni orchestrali e con la presenza della viola. Chiude con Swing on this, banale solo all’apparenza, in cui il gruppo si cimenta in uno swing senza infamia e senza lode: da premiare il tentativo perlomeno.
Il risultato finale è un grandioso ep: buone idee messe al posto giusto. Un piccolo classico per gli amanti del genere, e probabilmente il lavoro più efficace degli Alice in Chains divenuti ormai grandi e grossi da camminare con le proprie gambe.

Beh se lo hanno fatto i Nirvana e i Pearl Jam possiamo farlo anche noi !”. Questo in definitiva viene da pensare osservando la copertina di Unplugged degli Alice in Chains; tuttavia siamo nell’aprile 1996 ed il grunge non se lo ricorda più nessuno. Il palco del Brooklin Accademy ospita il live registrato da Mtv, che viene come sempre allestito con candele e fiori che solo dopo la morte di Cobain hanno fatto pensare ad un cimitero. L’atmosfera è meno distesa rispetto all’acustico dei Nirvana, le sono luci soffuse e Jerry Cantrell apre con un lungo intro di Nutshell, man mano che gli altri componenti prendono posto. Per ultimo ecco un  Staley visibilmente provato, pallido con occhialoni scuri e vestito di nero: la mezza parodia di se stesso. Gli Alice in Chains si presentano così dopo due anni e mezzo d’astinenza dai palcoscenici (nonostante l’uscita del controverso omonimo nel 1995). Se Cantrell, Inez e Kinney (compare in penombra pure il secondo chitarrista Scott Olson) sostengono bene la scena e sembrano pimpanti nonostante il lungo periodo di assenza, viene un pò il magone a vedere Staley conciato così male, con il povero Cantrell che cerca di salvare la baracca. Per gli esteti, l’intera performance può apparire deficitaria, specie nella parte vocale con Staley (oramai ostaggio senza ritorno dell’eroina) costretto a pause imbarazzanti, dimenticandosi pure le parole di Sludge Factory o lasciando esclusivamente a Cantrell il cantato in alcune parti. Tuttavia il pubblico sostiene la band, ed emotivamente è innegabile che venga una stretta al cuore, poichè la musica degli Alice in Chains è sempre stata buona, ed è un vero peccato come le condizioni di Staley abbiano più volte messo in scacco l’intera band.
Chiudo con le laconiche parole di Staley, qualche anno prima della sua dipartita (rileggendole oggi c’è davvero tanto rammarico!): «La droga che uso è come l’insulina di cui un diabetico ha bisogno per sopravvivere. Non le uso per ‘sballarmi’ come pensa molta gente e lo so di aver fatto un grave errore quando ho cominciato a usare questa merda. È un dolore insopportabile. È il peggior dolore del mondo»

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.