Back to Black – Amy Winehouse

Back to Black - Amy WinehouseNello scrivere questo pezzo su Amy Winehouse, dattiloscritto che oramai puzza di commiato, ripenso che appena qualche mese fa avevo dedicato a questo blog un articolo sul “Club 27”: un circolo sempre aperto ai nuovi membri a quanto pare!
Cavalcando l’onda di celebrazione, oberata all’ennesima potenza dal volgo retorico emotivo dei social network, voglio allontanarmi quanto possibile dalla malinconica biografia spiccia, che tanto quieta il cuore e la coscienza, facendo diventare oro ciò che ormai non esala respiro alcuno.
Di questa favolosa artista si è quasi esclusivamente parlato in modo grottesco dei vizi e degli eccessi, ammonendo con indice inquisitore, il pretesto sempreverde, della mancata gestione del suo immenso talento. Una chiave di lettura sbrigativa ed abbastanza facinorosa, ponendo solo l’accento verso i gesti plateali e disperati della sua breve carriera, dalla premiazione degli MTV Awards del 2007 fino alle esibizioni interrotte ed ubriache di numerosi live (ultimo quello di Belgrado del giugno 2011, con tanto di risatina da parte dei gossipari!) fino alle entrate-uscite dalle rehab. E mai che vi sia venuto in mente ci potesse essere una disperazione interiore ed un male di vivere che non si cura né con la fama ed il successo, né tantomeno con il talento!
Amy Winehouse era una giovane donna che sin dall’adolescenza nascondeva una bulimia custodita come un’elisir di bellezza, e che ha vissuto nel vuoto affettivo paterno una tragedia personale che ha cercato di ricreare anche in età adulta (dalla scelta dei membri della crew, fino agli amori al limite); un’artista estremamente talentuosa ma anche decisamente pigra e lenta nel comporre e creare musica.

Back to Black rimane la cima più luminosa della carriera di Amy Winehouse che, per quanto “costruita” forse, ha avuto il merito di riportare in auge un genere pressoché scomparso dopo l’implosione della Motown. Una voce “nera” in un corpo dilaniato dalla bulimia e dall’anoressia, una voce che ha creato un nuovo punto di riferimento nel mainstream femminile, in costante crisi d’astinenza e d’identità; riuscendo a monopolizzare in poco tempo l’attenzione anche dei non addetti ai lavori (particolare che ad altre colleghe, vedasi Josse Stone, altra grande giovane voce, non è riuscito!). I cloni di casa nostra dovrebbero gentilmente ringraziare …
Dopo Frank (2003) che esalta lo stile del quartiere di Camden, il secondo disco esalta il personaggio Winehouse, dal look ricercato nel dettaglio, all’approccio compositivo dei propri brani: un revival anni ’50 marcato e molto chic (che ne dite, Me and Mr. Jones una versione black di Me and Bobby McGee?), ma allo stesso tempo anacronistico ed appetibile per le charts, con ben 5 singoli di ottimo livello.
Rehab e la title-track oggi lasciano l’amaro in bocca ( dal celeberrimo verso «and if my daddy thinks I’m fine, he’s tried to make me go to rehab, I won’t go, go, go», fino al videoclip funereo di Back to Black nel quale sulla lapide si può leggere “R.I.P. the Heart of Amy Winehouse!), specialmente perché la pedante associazione suggerisce con solerzia alla “tragedia annunciata” (eppure altre tragedie di questo tipo hanno avuto un esito similare: Cobain e Morrison docet!).
Un disco dalla cadenza lenta e malinconia, ma sofisticato in alcune salite poderose che alla memoria ricorda l’ultima Bessie Smith («If I was my heart, I’d rather be restless» da Wake up alone); da annotare che i brani sono quasi interamente scritti dalla Winehouse, dal quale si evince viscerale passione e struggente dolore, raccontando in farsetto i propri tormenti segretamente nascosti. Love is a Losing Game con un passo da requiem sommesso, sentenzia l’amara verità di una mancanza latente che non si sostituisce con un paio di hits in top 10; non dissimile You know I’m not good, lo specchio di una personalità fragile e forte a ondate alterne, ma sempre puntellata da un’ironia sadica e lucida.

Seppur il disco cavalchi un’ondata emotiva fatta di malessere, l’ascolto è sempre limpido, quasi spensierato se non addirittura autocelebrativo in certe sfumature; Some unholy war e He can only hold her prendono le vesti degli opposti che si attraggono, mentre Tears dry on their own (preferita del sottoscritto!) lascia addosso una sorta di speranza oltre l’orizzonte… e forse era quello che si augurava anche la Winehouse, prima di entrare nel Club.

«He walks away, the sun goes down
He takes the day but I?m gone
And in your way in this blue shade
My tears dry on their own
»

Il cerchio si chiude anche per lei.  Forse l’epilogo più consono, poiché quando il tormento graffia l’anima, l’unica soluzione è la deriva … magica magica Amy!

 

Recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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