Dry – P.J. Harvey

Polly Jean Harvey: una poetessa rock-blues costipata. Meravigliosa nelle sue ballate sofferte, ritmate, confuse, ma elettricamente sofisticate e dotate di una carica sessuale che solo diec’anni prima una bomba sexy come Debbie Harry aveva osato. Musicalmente nata nel marasma pop-underground grazie ad influenze intelligenti che spaziano dai Pixies fino ai Sonic Youth, P.J. si costruisce un immagine pulita d’artista più intenta alla propria musica che a fantomatiche rivendicazioni femministe figlie di un riot grrrl più propagandistico che altro. Eppure verrà annoverata dalla stampa “specializzata” tra le ragazze cattive come Hole e Babes in Toyland, scomodando persino paragoni facili ed inesatti con Patti Smith.

Per capire il sincero eclettismo di quest’artista bisogna tuffarsi nella infatuazioni blues e irish-folk che P.J. Harvey coltiva fin da giovanissima. A coadiuvarla nel fondamentale esordio del 1992 Dry, ci pensa un giovane con fiuto come Rob Ellis, batterista ed apprendista produttore, ed un contributo minore del bassista Ian Olliver, già con P.J. durante gli anni itineranti del progetto Automatic Dlamini del mentore John Parish.
Un disco dalle tinte forti, mascherato da infallibili metafore ed immagini che fanno già intravedere la lungimiranza della cantante, intenta a comunicare una sorta di rivendicazione sociale senza slogan pubblicitari, senza inni di scarso valore. Siamo nell’epoca di Cherry Pie dei Warrant, le donne sono solo sesso, seppur per gioco!

Dry - P.J. HarveyDress è il brano meglio conosciuto di questo lp, che si lancia in un lisergico blues-rock dai colori scuri e dalla luce fioca. Una ballata tribale tanto selvaggia, quanto ruffiana, che prende dal pop solo ciò che gli serve (imparando magistralmente la lezione di Black Francis!) tralasciando pause rock acide e piene di lividi. Un testo scettico e critico, una sorta di Cinderella sagace che combatte il suo principe, un inno contro lo stereotipo della vanità femminile, tuttavia senza programmi sovversivi, l’ironia è celata nel chorus «If you put it on, if you put it on!».
O Stella riprende gli stessi ingredienti, sfociando in un veloce pop sanguinante che verrà poi ripreso, anche se in termini differenti, dalla pluri-acclamata Alanis Morissette (vedasi You Oughta Know). Soluzioni tecniche mai trascendentali, ad esempio tastare per credere il riff di basso portante in Victory: ammiccante, sospirata, dai ritmi pacati ma emozionanti. Mentre decisamente ambigua nella sua litania acustica è Happy and Bleeding, con riferimenti non troppo nascosti alla condizione femminile, cantati con estremo tatto e sofisticatezza: «Fig fruit flower myself inside out / I’m tired and I’m bleeding for you».

Altra hit da segnalare è Sheela-Na-Gig, nel quale P.J. Harvey scomoda le note sculture di origine celtica, raffiguranti bozzetti di donna dalla generosa fertilità: una sorta di protezione dal male e dalla morte. Tuttavia il pop-rock acceso di questo brano si trasforma ben presto in un inno di emancipazione, senza per forza usare violenza o slogan di partito: la concretezza di P.J. Harvey sta proprio qui, nel far riaffiorare l’essenza delle cose usando la poesia, nelle sue immagini più forti, come mezzo di comunicazione.
Da citare l’underground confuso di Joe e la sussurrata Oh, my Lover che apre con toni criptici il disco, tanto per dimostrare la versatilità di un lp che non conosce tempi morti.
Water chiude i giochi con vigore e grinta, simbiotico da trade d’union con il capolavoro di To Bring you my Love del 1995, sorretto da una title-track tra le più belle ballate del decennio.

Dry è un disco molto importante per comprendere le infinite influenze e passioni di una delle personalità più importanti della storia recente del rock, spesso rimasta sempre ai margini per scelta, tuttavia la sua presunta misantropia per il successo è giustificata … l’arte non dovrebbe mai giungere a compromessi.
Un esordio brillante come pochi: consigliato, non solo alle donne!

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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